sabato 20 giugno 2009

Montale Falsetto

Falsetto

Esterina, i vent'anni ti minacciano,
grigiorosea nube
che a poco a poco in sé ti chiude.
Ciò intendi e non paventi.
Sommersa ti vedremo
nella fumea che il vento
lacera o addensa, violento.
Poi dal fiotto di cenere uscirai
adusta più che mai,
proteso a un'avventura più lontana
l'intento viso che assembra
l'arciera Diana.
Salgono i venti autunni,
t'avviluppano andate primavere;
ecco per te rintocca
un presagio nell'elisie sfere.
Un suono non ti renda
qual d'incrinata brocca
percossa!; io prego sia
per te concerto ineffabile
di sonagliere.
La dubbia dimane non t'impaura.
Leggiadra ti distendi
sullo scoglio lucente di sale
e al sole bruci le membra.
Ricordi la lucertola
ferma sul masso brullo;
te insidia giovinezza,
quella il lacciòlo d'erba del fanciullo.
L'acqua' è la forza che ti tempra,
nell'acqua ti ritrovi e ti rinnovi:
noi ti pensiamo come un'alga, un ciottolo
come un'equorea creatura
che la salsedine non intacca
ma torna al lito più pura.
Hai ben ragione tu!
Non turbare
di ubbie il sorridente presente.
La tua gaiezza impegna già il futuro
ed un crollar di spalle
dirocca i fortilizî
del tuo domani oscuro.
T'alzi e t'avanzi sul ponticello
esiguo, sopra il gorgo che stride:
il tuo profilo s'incide
contro uno sfondo di perla.
Esiti a sommo del tremulo asse,
poi ridi, e come spiccata da un vento
t'abbatti fra le braccia
del tuo divino amico che t'afferra.
Ti guardiamo noi, della razza
di chi rimane a terra.


Eugenio Montale, Ossi di seppia

mercoledì 17 giugno 2009

In limine

Godi se il vento ch' entra nel pomario
vi rimena l' ondata della vita:
qui dove affonda un morto
viluppo di memorie,
orto non era, ma reliquario.

Il frullo che tu senti non è un volo,
ma il commuoversi dell' eterno grembo;
vedi che si trasforma questo lembo
di terra solitario in un crogiuolo.

Un rovello è di qua dall' erto muro.
Se procedi t' imbatti
tu forse nel fantasma che ti salva:
si compongono qui le storie, gli atti
scancellati pel giuoco del futuro.

Cerca una maglia rotta nella rete
che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
Va, per te l' ho pregato, - ora la sete
mi sarà lieve, meno acre la ruggine...

(Eugenio Montale)

sabato 6 giugno 2009

Il gorilla albino Calvino Paolomar.

Il gorilla albino
Nello zoo di Barcellona esiste l’unico esemplare che si conosca al mondo di scimmione albino, un gorilla dell’Africa equatoriale. Il signor Palomar si fa largo tra la folla che s’assiepa nel suo padiglione. Al di là d’una vetrata, «Copito de Nieve» («Fiocco di neve», così lo chiamano) è una montagna di carne e pelo bianco. Seduto contro una parete sta prendendo il sole. La maschera facciale è d’un roseo umano, lavorata dalle rughe; anche il petto mostra una pelle glabra e rosea, come quella degli uomini di razza bianca. Quel viso dalle fattezze enormi, da gigante triste, ogni tanto si volta verso la folla dei visitatori oltre il vetro, a meno d’un metro da lui; un lento sguardo carico di desolazione e pazienza e noia, uno sguardo che esprime tutta la rassegnazione a essere come si è, unico esemplare ai mondo d’una forma non scelta, non amata, tutta la fatica di portarsi addosso la propria singolarità, tutta la pena d’occupare lo spazio e il tempo con la propria presenza così ingombrante e vistosa.
La vetrata apre la vista su un recinto circondato d’alte pareti in muratura che gli danno un aspetto di cortile di prigione ma che è in realtà il «giardino» della casa-gabbia dei gorilla, dal cui suolo s’elevano un basso albero senza foglie e una scala di ferro da palestra di ginnastica. Più in là nel cortiletto c’è la femmina, una grande gorilla nera con un piccolo pure nero in braccio: il biancore del pelo non si eredita; «Copito de Nieve» resta l’unico albino di tutti i gorilla.
Canuto e immobile, lo scimmione evoca alla mente del signor Palomar un’antichità immemoriale, come le montagne o le piramidi. In realtà è un animale giovane e solo il contrasto tra il volto roseo e il pelo candido che lo incornicia e soprattutto le rughe tutt’intorno agli occhi gli danno l’apparenza d’un vegliardo. Per il resto, l’aspetto di «Copito de Nieve» presenta meno somiglianze con l’uomo di quello d’altri Primati: al posto del naso le narici scavano una doppia voragine; le mani, pelose e - si direbbe - poco articolate, all’estremità di braccia molto lunghe e rigide, sono ancora in realtà delle zampe, e come tali il gorilla le usa nel camminare, appoggiandole al suolo come un quadrupede.
Ora queste braccia-zampe stringono contro il petto un copertone di pneumatico d’auto. Nell’enorme vuoto delle sue ore, «Copito de Nieve» non abbandona mai il copertone. Cosa sarà questo oggetto per lui? Un giocattolo? Un feticcio? Un talismano? A Palomar sembra di capire perfettamente il gorilla, il suo bisogno d’una cosa da tener stretta mentre tutto gli sfugge, una cosa in cui placare l’angoscia dell’isolamento, della diversità, della condanna a essere sempre considerato un fenomeno vivente, dalle sue femmine e dai suoi figli come dai visitatori dello zoo.
Anche la femmina possiede un copertone d’auto, ma questo per lei è un oggetto d’uso, con cui ha un rapporto pratico e senza problemi: ci sta seduta dentro come in una poltrona, a prendere il sole spulciando il figlioletto. Per «Copito de Nieve» invece il contatto col pneumatico sembra essere qualcosa d’affettivo, di possessivo e in qualche modo simbolico. Di lì gli si può aprire uno spiraglio verso quella che per l’uomo è la ricerca d’una via d’uscita dallo sgomento di vivere: l’investire se stesso nelle cose, il riconoscersi nei segni, il trasformare il mondo in un insieme di simboli; quasi un primo albeggiare della cultura nella lunga notte biologica. Per far questo il gorila albino dispone solo d’un copertone d’auto, un antefatto della produzione umana, estraneo a lui, privo d’ogni potenzialità simbolica, nudo di significati, astratto. Non si direbbe che a contemplarlo se ne possa cavare molto. Eppure, che cosa meglio d’un cerchio vuoto è in grado d’assumere tutti i significati che si vuole attribuirgli? Forse immedesimandosi in esso il gorilla è sul punto di raggiungere al fondo del silenzio le sorgenti da cui scaturisce il linguaggio, di stabilire un flusso di rapporti tra i suoi pensieri e l’irreducibile sorda evidenza dei fatti che determinano la sua vita...
Uscito dallo zoo il signor Palomar non può togliersi dalla mente l’immagine del gorilla albino. Prova a parlarne con chi incontra, ma non riesce a farsi ascoltare da nessuno. La notte, tanto nelle ore d’insonnia quanto nei brevi sogni, continua ad apparirgli lo scimmione. «Come il gorilla ha il suo pneumatico che gli serve da supporto tangibile per un farneticante discorso senza parole, - egli pensa, - così io ho quest’immagine d’uno scimmione bianco. Tutti rigiriamo tra le mani un vecchio copertone vuoto mediante il quale vorremmo raggiungere il senso ultimo a cui le parole non giungono».
(I. Calvino, Palomar, 1983)

martedì 2 giugno 2009

“Cristiani di Allah” – Massimo Carlotto -

Questo brano mi è stato inviato e voglio riproporlo qui, credo che sia significativo sti i temi che corrono.


"Lampedusa per noi"

“La brezza era perfetta per gonfiare le vele e dare modo all’equipaggio e al sottoscritto di prendere confidenza con quel nuovo e perciò sconosciuto sciabecco.

Veleggiammo al largo per qualche ora e solo quando fui sicuro della sua solidità e affidabilità ordinai di provare le manovre di battaglia con diverse bordate a salve per ogni fiancata. Quando mi convinsi che era la migliore nave che avessi mai comandato mi avvicinai al timoniere e gli dissi di puntare verso l’isola di Lampedusa, luogo di riunione della nostra flotta.

Era stata scelta perché era considerata zona franca sia dai musulmani che dai cristiani. Si poteva gettare l’àncora in una delle numerose cale e rifornirsi di acqua e legna senza timore di essere aggrediti. Poteva capitare di incontrare legni nemici, ma ognuno faceva quello che doveva senza mettere mano alle armi.

Nessuno aveva mai saputo spiegarmi quando e per quale motivo fosse stato preso questo tacito accordo tra avversari che solo qualche miglio al largo si sarebbero scannati senza pietà. Ma la cosa che consideravo più straordinaria era l’esistenza di una grotta, dedicata dai cattolici alla Madonna, dove era sepolto anche un marabutto turco. E dove gli oggetti e i simboli delle religioni si confondevano e tutti lasciavano in segno di carità un po’ di cibo per i naufraghi e i pescatori sfortunati.

E anche per gli schiavi che riuscivano a liberarsi delle catene e che, in fuga verso oriente od occidente, si fermavano qualche giorno a riprendere fiato. Nessuno poteva fare loro del male o catturarli, Lampedusa era zona franca anche per loro.”

“Cristiani di Allah” – Massimo Carlotto - [2008] - Incipit “Capitolo Quarto”

lunedì 1 giugno 2009

Apuleio Metamorfosi IX 5-7: Un esempio di fabula milesia

5 Is gracili pauperie laborans fabriles operas praebendo parvis illis mercedibus vitam tenebat. Erat ei tamen uxorcula etiam satis quidem tenuit et ipsa, verum tamen postrema lascivia famigerabilis. Sed die quadam, dum matutino ille ad opus susceptum proficiscitur, statim latenter inrepti eius hospitium temerarius adulter. Ac dum Veneris conluctationibus securius operantur, maritus ignarus rerum ac nihil etiam tum tale suspicans inprovisus hospitium repetit. Iam clausis et obseratis foribus uxoris laudata continentia ianuam pulsat, sibilo etiam praesentiam suam denuntiante. Tunc mulier callida et ad huius modi flagitia perastutula tenacissimis amplexibus expeditum hominem dolio, quod erat in angulo semiobrutum, sed alias vacuum, dissimulanter abscondit, et patefactis aedibus adhuc introeuntem maritum aspero sermone accipit: "Sinice vacuus et otiosus insinuatis manibus ambulabis mihi nec obito consueto labore vitae nostrae prospicies et aliquid cibatui parabis? At ego misera pernox et perdia lanificio nervos meos contorqueo, ut intra cellulam nostram saltem lucerna luceat. Quanto me felicior Daphne vicina, quae mero et prandio matutino saucia cum suis adulteris volutatur!"

6 Sic confutatus maritus: "Et quid istic est?" ait "Nam licet forensi negotio officinator noster attentus ferias nobis fecerit, tamen hodiernae cenulae nostrae propexi. Vide sis ut dolium, quod semper vacuum, frustra locum detinet tantum et re vera praeter impedimentum conversationis nostrae nihil praestat amplius. Istud ego sex denariis cuidam venditavi, et adest ut dato pretio secum rem suam ferat. Quin itaque praecingeris mihique manum tantisper accommodas, ut exobrutum protinus tradatur emptori.?

E re nata fallaciosa mulier temerarium tollens cachinnum: "Magnum" inquit "istum virum ac strenuum negotiatorem nacta sum, qui rem, quam ego mulier et intra hospitium contenta iam dudum septem denariis vendidi, minoris distraxit."

Additamento pretii laetus maritus: "Et quis est ille" ait "qui tanto praestinavit?" At illa: "Olim, inepte," inquit "descendit in dolium sedulo soliditatem eius probaturus."

7 Nec ille sermoni mulieris defuit, sed exurgens alacriter: "Vis" inquit "verum scire, mater familias? Hoc tibi dolium nimis vetustum est et multifariam rimis hiantibus quassum" ad maritumque eius dissimulanter conversus: "Quin tu, quicumque es, homuncio, lucernam" ait "actutum mihi expedis, ut erasis intrinsecus sordibus diligenter aptumne usui possim dinoscere, nisi nos putas aes de malo habere?" Nec quicquam moratus ac suspicatus acer et egregius ille maritus accensa lucerna: "Discere," inquit "frater, et otiosus adsiste, donec probe percuratum istud tibi repraesentem"; et cum dicto nudatus ipse delato numine scabiem vetustam cariosae testae occipit exsculpere. At vero adulter bellissimus ille pusio inclinatam dolio pronam uxorem fabri superincurvatus secure dedolabat. Ast illa capite in dolium demisso maritum suum astu meretricio tractabat ludicre; hoc et illud et aliud et rursus aliud purgandum demonstrat digito suo, donec utroque opere perfecto accepit septem denariis calamitosus faber collo suo gerens dolium coactus est ad hospitium adulteri perferre.



Dunque, quest'uomo che lavorava da fabbro faceva la miseria nera e, con quel che guadagnava, appena appena riusciva a vivere. Anche sua moglie, come lui, non aveva il becco d'un quattrino ma, in compenso, era libidinosa al massimo, e tutti lo sapevano.

Un giorno, di buon'ora, appena il marito se ne uscì per andare al lavoro, subito un amante, con estrema sfacciataggine, s'infilò in casa. Ma ecco che mentre i due s'azzuffavano alla bell'e meglio sul letto, l'ignaro marito, senza sospettare di nulla, tornò sui suoi passi e, trovando la porta chiusa e sprangata, fra sé compiacendosi dell'onestà della moglie, picchiò all'uscio e le dette anche un fischio per farsi riconoscere.

La moglie, furba e pratica in imbrogli di questo genere, si staccò dall'uomo che teneva stretto fra le braccia e, come se niente fosse, lo nascose in una botte vuota, seminterrata in un angolo; poi, aperta la porta, aggredì il marito che ancora nemmeno era entrato: «Ah, è così? Ora mi vai anche a spasso, con le mani in tasca, come uno sfaccendato, buono a nulla. Perché non sei andato a lavorare? Alla famiglia non ci pensi, no? Cos'è che mangeremo oggi? E io, disgraziata, che me ne sto notte e giorno a rompermi le braccia filando lana perché in questa stanzetta almeno ci sia accesa la lampada. Guarda Dafne, quella qui vicino invece, com'è più fortunata di me: mangia e beve da prima mattina e si rivoltola ora con uno ora con un altro.»

E il marito, dopo una simile strapazzata: «Ma che ti prende?» le fece. «Il padrone aveva una causa in tribunale e ci ha fatto far festa. Però io ci ho pensato lo stesso alla nostra cenetta. La vedi quella botte?: sempre vuota, occupa tanto spazio per nulla, anzi sempre lì tra i piedi è più un impiccio che altro in casa. Ebbene, l'ho venduta a un tale per sei denari; tra poco sarà qui con i quattrini e se la porterà via. Perciò dammi una mano a tirarla fuori, così gliela consegneremo subito.»

La moglie, pronta anche in una situazione come questa, scoppiò in una risata insolente e: «Ma che gran d'uomo che è mio marito; ha proprio il bernoccolo degli affari: mi va a vendere a un prezzo inferiore della roba che io, povera donna, sempre chiusa in casa, ho già venduto per sette denari.»

«E chi te l'ha comprata a così tanto?» fece lui tutto contento di quell'aumento di prezzo.

E lei: «Ah scemo! È già da un po' ch'è lì dentro, per vedere se è sana!»

Dal canto suo l'amante non fu da meno della donna e, spuntando fuori: «Vuoi sapere la verità, buona donna?» le fece. «Questa tua botte è troppo vecchia e sgangherata. Ha certe crepe che paion fessure,» e rivolgendosi come se nulla fosse al marito: «E tu buon uomo, chiunque sia, fammi il favore di darmi una lanterna; voglio toglierci tutto lo sporco per vedere se può ancora servire. Non crederai mica che io li vada a rubare i miei soldi!»

E quell'intelligentone, quella perla rara di marito, tutto premuroso senza sospettare di nulla, acceso il lume: «Tirati su di lì, amico mio, e stattene quieto e comodo. Ci penserò io a farlo e te la mostrerò quand'è pulita.» E così dicendo, toltisi gli abiti, si calò dentro con il lume e cominciò a raschiare tutta la gromma che con il tempo s'era formata in quella vecchia giara.

Dal canto suo l'amante, un pezzo di ragazzo, si lavorava di gusto, dal di dietro, la moglie del fabbro che se ne stava appoggiata e curva sulla giara e che anzi, da vera sgualdrina, sporgendo il capo all'interno, si prendeva gioco del marito dicendogli: «Pulisci qui, c'è ancora sporco lì, e qua e là,» finché portato a termine ciascuno il suo lavoro, e avuti i suoi sette denari, quel disgraziato fabbro fu costretto a caricarsi in spalla la giara e a portarla fino a casa del suo rivale. (Traduzione da latinovivo).


G. Boccaccio Decameron La novella di Peronella VII 2

Peronella mette un suo amante in un doglio**, tornando il marito a casa; il quale avendo il marito venduto, ella dice che venduto l'ha ad uno che dentro v'è a vedere se saldo gli pare. Il quale saltatone fuori, il fa radere al marito, e poi portarsenelo a casa sua.

Con grandissime risa fu la novella d'Emilia ascoltata e l'orazione per buona e per santa commendata da tutti; la quale al suo fine venuta essendo, comandò il re a Filostrato che seguitasse, il quale incominciò.

Carissime donne mie, elle son tante le beffe che gli uomini vi fanno, e spezialmente i mariti, che, quando alcuna volta avviene che donna niuna alcuna al marito ne faccia, voi non dovreste solamente esser contente che ciò fosse avvenuto o di risaperlo o d'udirlo dire ad alcuno, ma il dovreste voi medesime andare dicendo per tutto, acciò che per gli uomini si conosca che, se essi sanno, e le donne d'altra parte anche sanno: il che altro che utile essere non vi può; per ciò che, quando alcun sa che altri sappia, egli non si mette troppo leggiermente a volerlo ingannare.

Chi dubita dunque che ciò che oggi intorno a questa materia diremo, essendo risaputo dagli uomini, non fosse lor grandissima cagione di raffrenamento al beffarvi, conoscendo che voi similmente, volendo, ne sapreste fare? E' adunque mia intenzion di dirvi ciò che una giovinetta, quantunque di bassa condizione fosse, quasi in un momento di tempo, per salvezza di sé al marito facesse.

Egli non è ancora guari che in Napoli un povero uomo prese per moglie una bella e vaga giovinetta chiamata Peronella, ed esso con l'arte sua, che era muratore, ed ella filando, guadagnando assai sottilmente, la lor vita reggevano come potevano il meglio.

Avvenne che un giovane de' leggiadri, veggendo un giorno questa Peronella e piacendogli molto, s'innamorò di lei, e tanto in un modo e in uno altro la sollicitò, che con essolei si dimesticò. E a potere essere insieme presero tra sé questo ordine: che, con ciò fosse cosa che il marito di lei si levasse ogni mattina per tempo per andare a lavorare o a trovar lavorio, che il giovane fosse in parte che uscir lo vedesse fuori; ed essendo la contrada, che Avorio si chiama, molto solitaria, dove stava, uscito lui, egli in casa di lei se n'entrasse; e così molte volte fecero.

Ma pur tra l'altre avvenne una mattina che, essendo il buono uomo fuori uscito, e Giannello Scrignario, ché così aveva nome il giovane, entratogli in casa e standosi con Peronella, dopo alquanto, dove in tutto il dì tornar non soleva, a casa se ne tornò, e trovato l'uscio serrato dentro, picchiò, e dopo il picchiare cominciò seco a dire:

- O Iddio, lodato sia tu sempre; ché, benché tu m'abbi fatto povero, almeno m'hai tu consolato di buona e onesta giovane di moglie. Vedi come ella tosto serrò l'uscio dentro, come io ci uscii, acciò che alcuna persona entrar non ci potesse che noia le desse.

Peronella, sentito il marito, ché al modo del picchiare il conobbe, disse:

- Ohimè, Giannel mio, io son morta, ché ecco il marito mio, che tristo il faccia Iddio, che ci tornò, e non so che questo si voglia dire, ché egli non ci tornò mai più a questa otta; forse che ti vide egli quando tu c'entrasti. Ma, per l'amore di Dio, come che il fatto sia, entra in cotesto doglio che tu vedi costì, e io gli andrò ad aprire, e veggiamo quello che questo vuol dire di tornare stamane così tosto a casa.

Giannello prestamente entrò nel doglio, e Peronella andata all'uscio aprì al marito, e con un malviso disse:

- Ora questa che novella è, che tu così tosto torni a casa stamane? Per quello che mi paia vedere, tu non vuogli oggi far nulla, ché io ti veggio tornare co' ferri tuoi in mano; e, se tu fai così, di che viverem noi? Onde avrem noi del pane? Credi tu che io sofferi che tu m'impegni la gonnelluccia e gli altri miei pannicelli? che non fo il dì e la notte altro che filare, tanto che la carne mi s'è spiccata dall'unghia, per potere almeno aver tanto olio che n'arda la nostra lucerna. Marito, marito, egli non ci ha vicina che non se ne maravigli e che non facci beffe di me di tanta fatica quanta è quella che io duro; e tu mi torni a casa con le mani spenzolate, quando tu dovresti esser a lavorare.

E così detto, incominciò a piagnere e a dir da capo:

- Ohimè, lassa me, dolente me, in che mal'ora nacqui, in che mal punto ci venni! ché avrei potuto avere un giovane così da bene e nol volli, per venire a costui che non pensa cui egli s'ha recata a casa. L'altre si danno buon tempo con gli amanti loro, e non ce n'ha niuna che non n'abbia chi due e chi tre, e godono e mostrano a' mariti la luna per lo sole; e io, misera me!, perché son buona e non attendo a così fatte novelle, ho male e mala ventura; io non so perché io non mi pigli di questi amanti come fanno l'altre. Intendi sanamente, marito mio, che se io volessi far male, io troverrei ben con cui, ché egli ci son de' ben leggiadri che m'amano e voglionmi bene e hannomi mandato proferendo di molti denari, o voglionmi bene e hannomi mandato proferendo di molti denari, o voglio io robe o gioie, né mai mel sofferse il cuore, per ciò che io non fui figliuola di donna da ciò; e tu mi torni a casa quando tu dei essere a lavorare.

Disse il marito:

- Deh donna, non ti dar malinconia, per Dio; tu dei credere che io conosco chi tu se', e pure stamane me ne sono in parte avveduto. Egli è il vero ch'io andai per lavorare, ma egli mostra che tu nol sappi, come io medesimo nol sapeva: egli è oggi la festa di santo Galeone, e non si lavora, e per ciò mi sono tornato a questa ora a casa; ma io ho nondimeno proveduto e trovato modo che noi avremo del pane per più d'un mese, ché io ho venduto a costui che tu vedi qui con me co il doglio, il quale tu sai che, già è cotanto, ha tenuta la casa impacciata, e dammene cinque gigliati.

Disse allora Peronella:

- E tutto questo è del dolor mio: tu che se'uomo e vai attorno, e dovresti sapere delle cose del mondo, hai venduto un doglio cinque gigliati, il quale io feminella che non fu'mai appena fuor dell'uscio, veggendo lo 'mpaccio che in casa ci dava, l'ho venduto sette ad un buono uomo, il quale, come tu qui tornasti, v'entrò dentro per vedere se saldo era.

Quando il marito udì questo, fu più che contento, e disse a colui che venuto era per esso:

- Buon uomo, vatti con Dio; ché tu odi che mia mogliere l'ha venduto sette, dove tu non me ne davi altro che cinque.

Il buono uomo disse:

- In buona ora sia; - e andossene.

E Peronella disse al marito:

- Vien su tu, poscia che tu ci se', e vedi con lui insieme i fatti nostri.

Giannello, il quale stava con gli orecchi levati per vedere se di nulla gli bisognasse temere o provvedersi, udite le parole di Peronella, prestamente si gittò fuor del doglio, e quasi niente sentito avesse della tornata del marito, cominciò a dire:

- Dove se', buona donna? Al quale il marito, che già veniva, disse:

- Eccomi, che domandi tu?

Disse Giannello:

- Qual se'tu? Io vorrei la donna con la quale io feci il mercato di questo doglio.

Disse il buono uomo:

- Fate sicuramente meco, ché io son suo marito.

Disse allora Giannello:

- Il doglio mi par ben saldo, ma egli mi pare che voi ci abbiate tenuta entro feccia, ché egli è tutto impiastricciato di non so che cosa sì secca, che io non ne posso levar con l'unghie, e però nol torrei se io nol vedessi prima netto.

Disse allora Peronella:

- No, per quello non rimarrà il mercato; mio marito il netterà tutto.

E il marito disse:

- Sì bene; - e posti giù i ferri suoi, e ispogliatosi in camicione, si fece accendere un lume e dare una radimadia, e fuvvi entrato dentro e cominciò a radere. E Peronella, quasi veder volesse ciò che facesse, messo il capo per la bocca del doglio, che molto grande non era, e oltre a questo l'un de' bracci con tutta la spalla, cominciò a dire:

- Radi quivi, e quivi, e anche colà; - e: - Vedine qui rimaso un micolino.

E mentre che così stava e al marito insegnava e ricordava, Giannello, il quale appieno non aveva quella mattina il suo disidero ancor fornito quando il marito venne, veggendo che come volea non potea, s'argomentò di fornirlo come potesse; e a lei accostatosi, che tutta chiusa teneva la bocca del doglio, e in quella guisa che negli ampi campi gli sfrenati cavalli e d'amor caldi le cavalle di Partia assaliscono, ad effetto recò il giovinil desiderio, il quale quasi in un medesimo punto ebbe perfezione e fu raso il doglio, ed egli scostatosi, e la Peronella tratto il capo del doglio, e il marito uscitone fuori.

Per che Peronella disse a Giannello:

- Te'questo lume, buono uomo, e guata se egli è netto a tuo modo.

Giannello, guardatovi dentro, disse che stava bene, e che egli era contento; e datigli sette gigliati, a casa sel fece portare.


**Doglio=giara