martedì 15 settembre 2009

Filologia piccola parentesi sulla storia e il metodo.

Poiché non restano autografi di autori classici, per le nostre conoscenze di quello che essi scrissero dipendiamo da dei codici e da della edizioni a stampa, che un numero ignoto di anelli separa dagli originali. Tutti i testimoni hanno sofferto nei secoli per danni fisici, per la possibilità degli errori degli amanuensi, per gli effetti di un’interpolazione deliberata. Qualunque tentativo di ristabilire la forma originale richiede l’impiego di un procedimento lungo e difficile che si divide in più fasi. Accade più volte che in molti punti del testo due o più codici diversi rechino delle differenti lezioni o varianti testuali, tra cui non è sempre facile stabilire quale sia la più attendibile. La scienza che permette di compiere un restauro del testo originale, quindi di poter ricavare una versione del testo più vicina a quella dell’autore è la filologia (dal greco φιλολογία, composto da φίλος "amante, amico" e λόγος "parola, discorso": "amore per lo studio delle parole"). Il metodo della filologia, fondato dal Lachmann si avvale di due momenti principali: la recensio e l’emendatio.
Lo studio dei testi con la finaltà di conservarli o ripristinarli nella forma più vicina possibile all’originale cominciò già in epoca antica e più precisamente nel III secolo a.C. in ambiente greco, con degli studiosi attivi ad Alessandrai d’Egitto. Il primo grande filologo fu Aristofane da Bisanzio, bibliotecario della biblioteca di Alessandria (257 a.C. 180 a.C.) fissò la fine dell'Odissea al libro XXIII, riunì i dialoghi platonici e fece la prima edizione delle poesie di Pindaro, nonché adottò un sistema di simboli per indicare i versi spurii. Sempre tra i filologi alessandrini è degno di nota Aristarco di Samotracia (216 a.C. 144 a.C.) discepolo di Aristofane, fu uno tra i più grandi studiosi di Omero oltre ad Omero, commentò Anacreonte Archiloco Aristofane Erodoto Eschilo Ione e Pindaro e fu autore dei Συγγράμματα, brevi discussioni critiche delle opinioni di altri commentatori. In ambito romano ricordiamo: Lucio Elio Stilone Preconino, che affrontò il problema dell'attribuzione delle opere plautine fu maestro del filologo Varrone e di Cicerone. Andando avanti con gli anni incontriamo Elio Donato grandissimo grammatico commentatore di Terenzio e di Virgilio, egli utilizzò un metodo filologico i cui cardini sono costituiti dalla completezza e dalla brevitas, con il continuo riferimento alle sue fonti, senza escludere alcuni interventi personali. Poi Marziano Capella (IV V d.C.)c' è noto per il trattato didattico indirizzato a suo figlio, De nuptiis Mercurii et Philologiae "Delle nozze di Mercurio con la Filologia", misto di prosa e versi di vari metri, opera diffusissima durante il medioevo.
La filologia, però, conobbe la sua fioritura durante l’umanesimo con Poliziano nel XV secolo. Si accostò ad Aristotele e alla sua "Poetica" maturando una nuova concezione della filologia umanistica, autonoma dai vincoli retorici connessi al platonismo ficiano e incentrata su una rigorosissima critica dei testi e sulla consapevolezza del valore storico della lingua. Poliziano fu quasi un precursore del criterio genealogico lachmanniano, infatti capì che i codici derivanti da un più antico esemplare sopravvivente non avevano valore ed applicò il principio dell’eliminatio ad alcune copie delle Epistole di Cicerone. Altra figura molto importante fu Erasmo da Rotterdam, che giunse a dedurre il concetto di archetipo studiando la tradizione del Nuovo Testamento. Sebbene avesse di ciò un concetto più vago di quello che abbiamo noi riuscì a spiegare facilmente come si produca un errore comune a tutti i testimoni. Nel settecento si ha una svolta decisiva: dei filologi inglesi e olandesi, tra cui spicca il nome di Richard Bentley (1662,1742) si dedicarono allo studio del Nuovo Testamento- un testo con una ricchissima tradizione manoscritta e numerosissime varianti- comprendendo che era necessaria una rigorosa recensio. Il secolo d’oro della filologia fu, però, l’ottocento in coincidenza col clima positivistico che dilagava in tutta Europa. Infatti, con Lachmann ed altri filologi tedeschi la filologia elaborò il suo metodo e divenne una scienza. Il Lachmann nel 1830, con l’edizione del Nuovo Testamento, confermò le deduzioni dei filologi settecenteschi per quanto riguarda l’archetipo, nel 1831 Carl Zumpt, nell’edizione delle Verrinae, disegnò il primo stemma codicum. Il metodo di Lachmann fu per la prima volta messo a punto nell’edizione del 1850 del De rerum natura. Questo metodo permetteva di risalire all’archetipo attraverso criteri rigorosi e scientifici. In realtà il metodo di Lachmann presentava numerosi limiti specie nel caso delle “tradizioni aperte” cioè di contaminazioni orizzontali del testo. Autore di importanti correzioni al metodo fu il filologo italiano Giorgio Pasquali (1885, 1952).
Vediamo ora con maggior attenzione le fasi del metodo, senza soffermarci su casi particolari, ma fornendo piccoli e chiari esempi.
La procedura seguita ancora oggi dallo studioso che intenda ricostruire la lezione originaria di un testo consta di due momenti essenziali: la recensio, ossia l’analisi rigorosa dei testimoni a disposizione, finalizzata a stabilire le relazioni intercorrenti tra loro e l’emendatio ossia la correzione del testo qualora presenti una lezione corrotta rispetto all’originale. I risultati del filologo sono poi presentati nell’edizione critica.
a)La teoria sistematica di recensione.
Per passare in rassegna i diversi testimoni che ci sono stati tramandati si procede anzitutto alla collazione con un testo di riferimento, che solitamente è costituito dalla più valida edizione a stampa o dal manoscritto più valido. Vengono registrate tutte le varianti testuali e vengono annotati a parte quelli che appaiono essere errori. Gli errori, molto importanti per stabilire le relazioni tra i codici, hanno una genesi diversa: possono essere frutto di una svista del copista, oppure posso essere una manomissione volontaria per motivi di censura, in questo caso si parla di interpolazione. Gli errori si possono dividere in coniunctivi, cioè mostrano che due manoscritti sono più connessi tra loro che con un terzo e in errori separativi, ossia mostrano che un manoscritto è indipendente da un altro perché il secondo contiene uno o più errori dai quali il primo è esente. La genesi degli errori è molteplice: vi sono errori “psicologici” dovuti ad associazioni mentali , come il ricordo di una parola letta e trascritta precedentemente. Altri fenomeni rilevanti èsono: la banalizzazione ossia la tendenza a semplificare ( c.f.r. Lectio difficilior ), l’assimilazione frequente nelle desinenze (mutazione della parte finale di una parola sulla base della desinenza della parola vicina) e l’aplografia cioè lo scrivere una sillaba o un segmento di testo che compare due volte ( defendum per defendendum est). Altri errori molto comuni sono gli errori di lettura come il salto dallo stesso allo stesso.
A questo proposito riportiamo per esemplificare uno schema rappresentate uno stemma codicum tratto da: D. Reynolds- N.G. Wilson, Copisti e Filologi, c.f.r. bibliografia (p223).

ω


(E)
α

X Y Z

β


A γ


B C D


ω Rappresenta l’archetipo, le lettere greche minuscole indicano i codici perduti, ma ipotizzati. Dunque, i codici rimasti sono otto, riguardo a E si suppone che sia un frammento contenente solo una piccola parte di testo. Una volta compilato lo stemma si può procedere alla ricostruzione del testo attraverso lo spoglio varianti, le quali avranno un peso diverso in base alla disposizione, più o meno lontana, dall’archetipo. Sulla base degli errori si stabilisce, ad esempio, che un codice contente tutti gli errori significativi presenti in un altro codice, più almeno un altro errore è derivato da quel codice e quindi non può essere preso in considerazione: eliminatio codicum descriptorum. Ora interpretiamo lo schema sopra ripotato.
1. Se B è derivato esclusivamente da A, differirà da A solo per essere più corrotto. Il primo passo sarà quello di eliminare B.
2. Il testo γ può essere dedotto dall’accordo di C e D.
2. Il testo β può essere ricavato dall’accordo di A,C e D.
3. Il testo α si ricava dall’accordo di X, Y e Z , o di due di essi contro il terzo.
4. Se β ed α sono in accordo si potrà dire che essi diano il testo dell’archetipo, qualora non lo siano possono essere validi entrambi: è compito dell’examinatio decidere quale delle due è autentica.
Un testo, come quello ipotizzato in questo stemma è emendabile grazie a una recensione automatica e si dice cha ha una “tradizione chiusa” (Pasquali). Va tuttavia detto che la teoria stemmatica non è sempre applicabile rigorosamente. In primo luogo gli stemmi tripartiti sono abbastanza pochi ( come quello di Lucrezio), spesso ci si trova di fronte a stemmi bipartiti ( come quello delle opere Plauto). Inoltre, come ha ben sottolineato Pasquali, questa teoria presuppone che le lezioni e gli errori si trasmettano solo verticalmente. E’ invece appurato che i copisti avevano spesso a disposizione più codici e sceglievano confrontandoli tra loro il testo migliore. Ne deriva anche una contaminazione orizzontali, che determina una “ tradizione aperta”, in cui la lezione originaria non può essere dedotta meccanicamente. Dunque, la ricostruzione del testo avviene ope ingegni, ossia attraverso le congetture del filologo. Egli si affiderà a dei criteri:
•Il criterio della lectio difficilior, tra due lezioni, entrambe corrette e valide, sarà più attendibile la lezione più difficile, poiché i copisti tendevano a semplificare il testo essendo la loro lingua diversa da quella dei classici.
•Il criterio dell’usus scribendi, sarà preferibile la lezione che rispecchia lo stile compositivo dell’autore.
•Il criterio paleografico per cui di due lezioni sarà preferibile quella che può essersi corrotta nell’altra per motivi grafici.