mercoledì 22 aprile 2009

CERTAMEN LUCRETIANUM

Oggi si parte per il certamen su Lucrezio...

domenica 19 aprile 2009

Omar Khayyam


Non ricordare il giorno trascorso
e non perderti in lacrime sul domani che viene:
su passato e futuro non far fondamento
vivi dell'oggi e non perdere al vento la vita.

Un popolo è immerso in pensieri di religione e di fede,
un gruppo è perplesso fra dubbio e certezza.
D'improvviso verrà dalle insidie un banditore:
"Oh ignari, non è quella la via, non è questa!".

Perché parlare dei cinque sensi o dei quattro elementi, o coppiere?
che importa se è Uno il problema o sono centomila,
siamo fatti di polvere: prendi il liuto, o coppiere!
Siamo fatti di vento: porta il vino, o coppiere!

Vieni accarezza le chiome di una gentile fanciulla,
prima che il fato ti infranga le membra.
Godi una coppa di vino finché il tuo nome è sul Libro della Vita.
Il cuore domato dal vino non è preda d'affanni.

Un giorno verrà, sappilo, che dall'anima verrai allontanato
e per sempre sarai oltre il velo del nulla.
Bevi, bevi, poiché non sai da dove venisti
e sii lieto poiché non sai dove un giorno andrai.

Peccato! Il capitale sfuggì dalle mani
e per colpa del fato molti cuori ha fatto di sangue
nessuno verrà dal quel mondo, a cui potrò domandare:
"Che cosa su mai degli affari del viandante del mondo?"

Fino a quando avrai la fronte corrucciata da tristi pensieri ( e qui mi viene in mente un Epodo di Orazio)
non è dato trovare la Via con l'essere triste.
La mia vita e la tua sono estranee al nostro potere,
rassegnati, quindi al destino, è questa la vita del saggio.

La luna col suo raggio ha strappato la veste alla notte
bevi del vino perché un attimo simile a questo non è dato.
Vivi gioioso e sappi che molti chiari di luna
sulla terra, a uno a uno, torneranno a brillare.

Al volto del fiore è caro lo zefiro di primavera,
alla corte del prato piace il volto di una bella fanciulla.
Del tempo passato qualsiasi cosa tu dica, non è bella
sii lieto e non parlare di ieri, che l'oggi è gioioso.

Dalla dimora del peccato alla fede è un soffio.
Dal mondo del dubbio alla verità, pure, è un soffio.
E' l'uomo onorato che ha caro quel soffio:
questa vita dell'oggi è proprio quel soffio.

Dicono: "paradiso huri e Kauthar ci saranno,
ruscelli si vino, latte, zucchero e miele".
Offri una coppa in memoria di quelli, o Coppiere!
Moneta contate è meglio di mille cambiali.

Da
Omar Khayyam (1048 - 1131), quartine.

Tchaikovsky Piano Trio in A minor, Op.50 Horowitz Stern and Rostropovič



giovedì 16 aprile 2009

Il sogno

Il sogno



    Era il mattino, e tra le chiuse imposte
    Per lo balcone insinuava il sole
    Nella mia cieca stanza il primo albore;
    Quando in sul tempo che più leve il sonno
    E più soave le pupille adombra,
    Stettemi allato e riguardommi in viso
    Il simulacro di colei che amore
    Prima insegnommi, e poi lasciommi in pianto.
    Morta non mi parea, ma trista, e quale
    Degl'infelici è la sembianza. Al capo
    Appressommi la destra, e sospirando,
    Vivi, mi disse. e ricordanza alcuna
    Serbi di noi? Donde, risposi, e come
    Vieni, o cara beltà? Quanto, deh quanto
    Di te mi dolse e duol: nè mi credea
    Che risaper tu lo dovessi; e questo
    Facea più sconsolato il dolor mio.
    Ma sei tu per lasciarmi un'altra volta?
    Io n'ho gran tema. Or dimmi, e che t'avvenne?
    Sei tu quella di prima? E che ti strugge
    Internamente? Obblivione ingombra
    I tuoi pensieri, e gli avviluppa il sonno,
    Disse colei. Son morta, e mi vedesti
    L'ultima volta, or son più lune. Immensa
    Doglia m oppresse a queste voci il petto.
    Ella seguì: nel fior degli anni estinta,
    Quand'è il viver più dolce, e pria che il core
    Certo si renda com'è tutta indarno
    L' umana speme. A desiar colei
    Che d ogni affanno il tragge, ha poco andare
    L'egro mortal; ma sconsolata arriva
    La morte ai giovanetti, e duro è il fato
    Di quella speme che sotterra è spenta.
    Vano è saper quel che natura asconde
    Agl'inesperti della vita, e molto
    All'immatura sapienza il cieco
    Dolor prevale. Oh sfortunata, oh cara,
    Taci, taci, diss'io, che tu mi schianti
    Con questi detti il cor. Dunque sei morta,
    O mia diletta, ed io son vivo, ed era
    Pur fisso in ciel che quei sudori estremi
    Cotesta cara e tenerella salma
    Provar dovesse, a me restasse intera
    Questa misera spoglia? Oh quante volte
    In ripensar che più non vivi, e mai
    Non avverrà ch'io ti ritrovi al mondo,
    Creder nol posso. Ahi ahi, che cosa è questa
    Che morte s'addimanda? Oggi per prova
    Intenderlo potessi, e il capo inerme
    Agli atroci del fato odii sottrarre.
    Giovane son, ma si consuma e perde
    La giovanezza mia come vecchiezza;
    La qual pavento, e pur m'è lunge assai.
    Ma poco da vecchiezza si discorda
    Il fior dell'età mia. Nascemmo al pianto,
    Disse, ambedue; felicità non rise
    Al viver nostro; e dilettossi il cielo
    De' nostri affanni. Or se di pianto il ciglio,
    Soggiunsi, e di pallor velato il viso
    Per la tua dipartita, e se d'angoscia
    Porto gravido il cor; dimmi: d'amore
    Favilla alcuna, o di pietà, giammai
    Verso il misero amante il cor t'assalse
    Mentre vivesti? Io disperando allora
    E sperando traea le notti e i giorni;
    Oggi nel vano dubitar si stanca
    La mente mia. Che se una volta sola
    Dolor ti strinse di mia negra vita,
    Non mel celar, ti prego, e mi soccorra
    La rimembranza or che il futuro è tolto
    Ai nostri giorni. E quella: ti conforta,
    O sventurato. Io di pietade avara
    Non ti fui mentre vissi, ed or non sono,
    Che fui misera anch'io. Non far querela
    Di questa infelicissima fanciulla.
    Per le sventure nostre, e per l'amore
    Che mi strugge, esclamai; per lo diletto
    Nome di giovanezza e la perduta
    Speme dei nostri dì, concedi, o cara,
    Che la tua destra io tocchi. Ed ella, in atto
    Soave e tristo, la porgeva. Or mentre
    Di baci la ricopro, e d'affannosa
    Dolcezza palpitando all'anelante
    Seno la stringo, di sudore il volto
    Ferveva e il petto, nelle fauci stava
    La voce, al guardo traballava il giorno.
    Quando colei teneramente affissi
    Gli occhi negli occhi miei, già scordi, o caro,
    Disse, che di beltà son fatta ignuda?
    E tu d'amore, o sfortunato, indarno
    Ti scaldi e fremi. Or finalmente addio.
    Nostre misere menti e nostre salme
    Son disgiunte in eterno. A me non vivi
    E mai più non vivrai: già ruppe il fato
    La fe che mi giurasti. Allor d'angoscia
    Gridar volendo, e spasimando, e pregne
    Di sconsolato pianto le pupille,
    Dal sonno mi disciolsi. Ella negli occhi
    Pur mi restava, e nell'incerto raggio
    Del Sol vederla io mi credeva ancora.

La sera del dì di festa


Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna. O donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi
Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, che t'accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai nè pensi
Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m'affaccio,
E l'antica natura onnipossente,
Che mi fece all'affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d'altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da' trastulli
Prendi riposo; e forse ti rimembra
In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
Piacquero a te: non io, non già, ch'io speri,
Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
Quanto a viver mi resti, e qui per terra
Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
In così verde etate! Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell'artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente. Or dov'è il suono
Di que' popoli antichi? or dov'è il grido
De' nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l'armi, e il fragorio
Che n'andò per la terra e l'oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s'aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s'udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.

Giacomo Leopardi Canti.

Alla sua donna

Alla sua donna

Cara beltà che amore
Lunge m’inspiri o nascondendo il viso,
Fuor se nel sonno il core
Ombra diva mi scuoti,
O ne’ campi ove splenda
Più vago il giorno e di natura il riso;
Forse tu l’innocente
Secol beasti che dall’oro ha nome,
Or leve intra la gente
Anima voli? o te la sorte avara
Ch’a noi t’asconde, agli avvenir prepara?

Viva mirarti omai
Nulla spene m’avanza;
S’allor non fosse, allor che ignudo e solo
Per novo calle a peregrina stanza
Verrà lo spirto mio. Già sul novello
Aprir di mia giornata incerta e bruna,
Te viatrice in questo arido suolo
Io mi pensai. Ma non è cosa in terra
Che ti somigli; e s’anco pari alcuna
Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
Saria, così conforme, assai men bella.

Fra cotanto dolore
Quanto all’umana età propose il fato,
Se vera e quale il mio pensier ti pinge,
Alcun t’amasse in terra, a lui pur fora
Questo viver beato:
E ben chiaro vegg’io siccome ancora
Seguir loda e virtù qual ne’ prim’anni
L’amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse
Il ciel nullo conforto ai nostri affanni;
E teco la mortal vita saria
Simile a quella che nel cielo india.

Per le valli, ove suona
Del faticoso agricoltore il canto,
Ed io seggo e mi lagno
Del giovanile error che m’abbandona;
E per li poggi, ov’io rimembro e piagno
I perduti desiri, e la perduta
Speme de’ giorni miei; di te pensando,
A palpitar mi sveglio. E potess’io,
Nel secol tetro e in questo aer nefando,
L’alta specie serbar; che dell’imago,
Poi che del ver m’è tolto, assai m’appago.

Se dell’eterne idee
L’una sei tu, cui di sensibil forma
Sdegni l’eterno senno esser vestita,
E fra caduche spoglie
Provar gli affanni di funerea vita;
O s’altra terra ne’ superni giri
Fra’ mondi innumerabili t’accoglie,
E più vaga del Sol prossima stella
T’irraggia, e più benigno etere spiri;
Di qua dove son gli anni infausti e brevi,
Questo d’ignoto amante inno ricevi.

Giacomo Leopardi - Canti

Alla Luna

O grazïosa luna, io mi rammento
Che, or volge l'anno, sovra questo colle
Io venia pien d'angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
5 Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, né cangia stile,
10 O mia diletta luna. E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l'etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
15 Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l'affanno duri!

mercoledì 15 aprile 2009

ἀθάνατοϛ ποίησιϛ lo spazio della lirica greca: Saffo frammento 130 V (vv. 1-2)

Ἔροϛ δηὖτέ μ' ὀ λυσιμέληϛ δόνει
γλυκύπικρον ἀμάχανον ὄρπετον
...
Eros che scioglie le membra mi scuote nuovamente:
dolceagra invincibile belva.

lunedì 13 aprile 2009

Liszt sonata in si minore

Cos'è la filologia? I


Filologia è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento, essendo un'arte e una perizia da orafi della parola, che deve compiere un finissimo attento lavoro e non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento. Ma proprio per questo fatto è oggi più necessaria che mai; è proprio per questo che essa ci attira e ci incanta quanto mai fortemente, nel cuore di un'epoca del "lavoro": intendo dire della fretta, della precipitazione indecorosa e sudaticcia, che vuol "sbrigare" immediatamente ogni cosa (...). Per una tale arte non è tanto facile sbrigare qualsiasi cosa perché essa ci insegna a leggere bene, cioè a leggere lentamente in profondità, guardandosi avanti e indietro, non senza secondi fini, lasciando porte aperte, con dita e con occhi delicati.

Nietzsche

Fa anche parte del mio gusto non scrivere più nulla che porti alla disperazione di gente frettolosa. La filologia è lesinare tempo, divenire silenzioso, divenire lento. Non si raggiunge nulla se non lo si raggiunge lentamente. Leggere bene è leggere lentamente, in profondità, lasciando porte aperte, con dita e occhi delicati.
Dante Isella



sabato 11 aprile 2009

Orazio Ode I 38

(Metro: strofe saffica tre endecasillabi saffici più un adonio)

Persicos odi, puer, apparatus,
displicent nexae philyra coronae,
mitte sectari, rosa quo locorum
sera moretur.

Simplici myrto nihil adlabores 5
sedulus, curo: neque te ministrum
dedecet myrtus neque me sub arta
vite bibentem.

Oh fanciullo detesto lo sfarzo delle cerimonie persiane
non mi piacciono le corone intrecciate con nobili fronde,
desisti dal cercare il luogo dove la rosa
tardi ad appassire.

Non mi preoccupo che tu solerte
aggiunga qualcosa al semplice mirto; il mirto
non macchia né te che servi né me
che siedo sotto la vite.


E' l'ultima ode del libro primo, il poeta chiede al ragazzo che lo serve di non preoccuparsi di altro che delle piccole cose che lo allietano.
Questa è un'ode alla serenità che giunge dopo l'estate nel mite autunno, il poeta non vuole lo sfarzo, l'oro, oppure le corone di nobili fronde,
egli preferisce bere dotto la l'umile vite in tranquillità. Possiamo però notare nella classica compostezza anche una vena di malinconia quando dichiara di rifiutare la rosa per il mirto, e sappiamo che la rosa è il simbolo della giovinezza e dell'amore e la rinuncia di essa è fonte di dispiacere.
Lo stile è semplice e limpido, che ricalca il senso questa poesia fornisce un esempio di quel " minimo di segni massimo di poesia" che per Nietzsche rappresenta la forza della poesia oraziana. Traina, infine, aggiunge che tutta l'ode è giocata su una triplice.

Orazio Ode III 9

METRO: Strofe asclepiadea quarta.
Donec gratus eram tibi,
nec quisquam potior bracchia candidae
cervici iuvenis dabat,
Persarum vigui rege beatior.

donec non alia magis
arsisti, neque erat Lydia post Chloen,
multi Lydia nominis
Romana vigui clarior Ilia.

me nunc Thressa Chloe regit,
dulces docta modos et citharae sciens,
pro qua non metuam mori,
si parcent animae fata supersiti.

me torret face mutua
Thurini Calais filius Ornyti,
pro quo bis patiar mori,
si parcent puero fata supersiti.

quid si prisca redit Venus
diductosque iugo cogit aeneo,
si flava excutitur Chloe
reiectaeque patet ianua Lydiae?

quamquam sidere pulchrior
ille est, tu levior cortice et improbo
iracundior Hadria,
tecum vivere amem, tecum obeam libens.


Finché ti piacevo,
e nessun giovane più fortunato gettava le braccia
intorno al tuo collo candido,
vissi più felice del re dei persiani.

Finché non ardesti di più per un'altra
e non c'era Lidia dopo Cloe,
io Lidia di molta fama
brillai di più di Ilia romana.

Ora mi regge la Tracia Cloe
che sa dolci melodie e e sa suonare la cetra,
per quella temerei di morire,
se i fati la risparmieranno, lei che la mia amata.

Mi brucia di fuoco corrisposto
Clais, figlio di Ornito da Turi,
per il quale sopporterei due volte di morire
se i fati risparmieranno il ragazzo.

E se ritorna l'antico amore
i due amanti sono separati sotto il bronzeo giogo,
se la bionda Cloe è scossa via,
mi apre la porta Lidia lasciata?

Anche se quello è più bello delle stelle,
tu sei più lieve della corteccia del sughero e più violento
dell'agitato Adriatico,
con te amerei vivere, con te volentieri morirei.

Qui vediamo un Orazio abbastanza controllato, ma non meno passionale di un Catullo o di Tibullo, in lui prevale l'aspirazione per l'autàrkeia di provenienza epicurea. L'ideale da perseguire è il controllo delle passioni e non la sospensione del sentimento. Tra le passioni che compaiono con più forza nell'ode vi è la gelosia: tra le tante amanti, Lidia ha lasciato un segno molto evidente; nel nostro poeta vi è pure la rabbia che qualcuno abbia posto le braccia attorno al collo della sua amata. Ognuno tende a rimarcare, come in una sfida, le qualità del proprio amante e a sottolineare la devozione che ha per lui, ma alla fine entrambi cedono e si scambiano un proposito di fedeltà eterna. Come già Lucrezio, nel libro IV del De rerum natura, ha delineato un quadro angosciante della passione amorosa, Orazio, anche lui epicureo, sembra scoprire che la soluzione per i turbamenti legati all'amore, sia un foedus ( per riprendere un termine della poesia latina), un legame duraturo; ciò potrebbe dimostrare un legame con il mos maiorum. Riprendo due cose riguardo allo stile, e la metrica: Orazio usa il sistema asclepiadeo quarto per la sua duttilità; sono numerose le riprese verbali e le anafore.

Orazio Epodo 13


Orazio Epodo 13.
Horrida tempestas caelum contraxit et imbres
nivesque deducunt Iovem; nunc mare, nunc silvae
Threicio aquilone sonant. Rapiamus, amici,
occasionem de die, dumque virent genua
et decet, obducta solvatur fronte senectus.
Tu vina Torquato move consule pressa meo.
Cetera mitte loqui: deus haec fortasse benigna
Reducem in sedem vice. Nunc et Achaemenio
Perfundi nardo iuvat et fide Cyllenea
levare diris pectora sollicitudinibus,
nobilis ut grandi cecinit Centaurus alumno:
"invicte, mortalis dea nate puer Thetide,
te manet Assarici tellus, quam frigida parvi
findunt Scamandri flumina lubricus et Simois,
unde tibi reditum certo subtemine Parcae
rupere, nec mater domum caerula te revehet.
Illic omne malum vino cantuque levato,
deformis aegrimoniae dulcibus alloquiis".
(Q. Horati Flacci Epodon liber, 13)


Una tempesta minacciosa si staglia all’orizzonte e
le fredde piogge che cadono dal cielo ci travolgono: il vento gelido dei monti di Tracia strepita tra i boschi e sul mare.
Amici miei, cogliamo ora ciò che la vita ci offre,
mentre le forze ancora corroborano il nostro corpo, e con moderazione rassereniamoci.
Tu mesci il vino vendemmiato nell’anno in cui nacqui; smettila di preoccuparti: un dio, forse, cambierà tutto in bene. Ora dobbiamo solo cospargerci d’olio profumato e, al suono della lira,
allontanare l’ansia per il domani.
Tali parole disse il Centauro Chirone ad Achille:
“Oh ragazzo invincibile, se anche da una dea nascesti, sempre t’attende la nera palude degli inferi: devi salpare verso Troia laggiù troverai la guerra, e le parche, ahimé infallibili, taglieranno il filo della tua giovane vita e la cerulea madre tua benché potente non potrà farti riveder le stelle. Là soffocherai ogni dolore col vino, col canto: dolci conforti all’angoscia che ci sfigura.

Eschilo Agamennone


Ma chi a Zeus con gioia leva il grido epinicio
coglierà pienamente la saggezza, (phrenôn to pân)
a Zeus che ha avvinto i mortali
a essere saggi, che ha posto come valida legge
saggezza attraverso la sofferenza.
(ton panthei màthos
thénta kyrìos échein).
Eschilo Agamennone vv 174 178
Traduzione E. Medda, L. Battezzato M.P. Pattoni

Ζῆνα δέ τις προφρόνως ἐπινίκια κλάζων
τεύξεται φρενῶν τὸ πᾶν
τὸν φρονεῖν βροτοὺς ὁδώ-
σαντα, τὸν πάθει μάθος
θέντα κυρίως ἔχειν.

venerdì 10 aprile 2009

Il suonatore Jones

Dall'album Non al denaro, non all'amore né al cielo di De André, ispirato all'antologia di Spoon River.
In un vortice di polvere
gli altri vedevan siccità,
a me ricordava
la gonna di Jenny
in un ballo di tanti anni fa.

Sentivo la mia terra
vibrare di suoni, era il mio cuore
e allora perché coltivarla ancora,
come pensarla migliore.

Libertà l'ho vista dormire
nei campi coltivati
a cielo e denaro,
a cielo ed amore,
protetta da un filo spinato.

Libertà l'ho vista svegliarsi
ogni volta che ho suonato
per un fruscio di ragazze
a un ballo,
per un compagno ubriaco.

E poi se la gente sa,
e la gente lo sa che sai suonare,
suonare ti tocca
per tutta la vita
e ti piace lasciarti ascoltare.

Finii con i campi alle ortiche
finii con un flauto spezzato
e un ridere rauco
ricordi tanti
e nemmeno un rimpianto.

Un Medico

Dall'album Non al denaro, non all'amore né al cielo di De André, ispirato all'antologia di Spoon River.
Da bambino volevo guarire i ciliegi
quando rossi di frutti li credevo feriti
la salute per me li aveva lasciati
coi fiori di neve che avevan perduti.

Un sogno, fu un sogno ma non durò poco
per questo giurai che avrei fatto il dottore
e non per un dio ma nemmeno per gioco:
perché i ciliegi tornassero in fiore,
perché i ciliegi tornassero in fiore.

E quando dottore lo fui finalmente
non volli tradire il bambino per l'uomo
e vennero in tanti e si chiamavano "gente"
ciliegi malati in ogni stagione.

E i colleghi d'accordo i colleghi contenti
nel leggermi in cuore tanta voglia d'amare
mi spedirono il meglio dei loro clienti
con la diagnosi in faccia e per tutti era uguale:
ammalato di fame incapace a pagare.

E allora capii fui costretto a capire
che fare il dottore è soltanto un mestiere
che la scienza non puoi regalarla alla gente
se non vuoi ammalarti dell'identico male,
se non vuoi che il sistema ti pigli per fame.

E il sistema sicuro è pigliarti per fame
nei tuoi figli in tua moglie che ormai ti disprezza,
perciò chiusi in bottiglia quei fiori di neve,
l'etichetta diceva: elisir di giovinezza.

E un giudice, un giudice con la faccia da uomo
mi spedì a sfogliare i tramonti in prigione
inutile al mondo ed alle mie dita
bollato per sempre truffatore imbroglione
dottor professor truffatore imbroglione.

Un Blasfemo

Dall'album Non al denaro, non all'amore né al cielo di De André, ispirato all'antologia di Spoon River.
(Dietro Ogni Blasfemo C'è Un Giardino Incantato)

Mai più mi chinai e nemmeno su un fiore,
più non arrossii nel rubare l'amore
dal momento che Inverno mi convinse che Dio
non sarebbe arrossito rubandomi il mio.

Mi arrestarono un giorno per le donne ed il vino,
non avevano leggi per punire un blasfemo,
non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte,
mi cercarono l'anima a forza di botte.

Perché dissi che Dio imbrogliò il primo uomo,
lo costrinse a viaggiare una vita da scemo,
nel giardino incantato lo costrinse a sognare,
a ignorare che al mondo c'e' il bene e c'è il male.

Quando vide che l'uomo allungava le dita
a rubargli il mistero di una mela proibita
per paura che ormai non avesse padroni
lo fermò con la morte, inventò le stagioni.

... mi cercarono l'anima a forza di botte...

E se furon due guardie a fermarmi la vita,
è proprio qui sulla terra la mela proibita,
e non Dio, ma qualcuno che per noi l'ha inventato,
ci costringe a sognare in un giardino incantato,
ci costringe a sognare in un giardino incantato
ci costringe a sognare in un giardino incantato.

Un giudice

Dall'album Non al denaro, non all'amore né al cielo di De André, ispirato all'antologia di Spoon River.

Cosa vuol dire avere
un metro e mezzo di statura,
ve lo rivelan gli occhi
e le battute della gente,
o la curiosità
di una ragazza irriverente
che si avvicina solo
per un suo dubbio impertinente:

vuole scoprir se è vero
quanto si dice intorno ai nani,
che siano i più forniti
della virtù meno apparente,
fra tutte le virtù
la più indecente.

Passano gli anni, i mesi,
e se li conti anche i minuti,
è triste trovarsi adulti
senza essere cresciuti;
la maldicenza insiste,
batte la lingua sul tamburo
fino a dire che un nano
è una carogna di sicuro
perché ha il cuore toppo,
troppo vicino al buco del culo.

Fu nelle notti insonni
vegliate al lume del rancore
che preparai gli esami.
diventai procuratore
per imboccar la strada
che dalle panche d’una cattedrale
porta alla sacrestia
quindi alla cattedra d’un tribunale,
giudice finalmente,
arbitro in terra del bene e del male.

E allora la mia statura
non dispensò più buonumore
a chi alla sbarra in piedi
mi diceva Vostro Onore,
e di affidarli al boia
fu un piacere del tutto mio,
prima di genuflettermi
nell’ora dell’addio
non conoscendo affatto
la statura di Dio.

ἀθάνατοϛ ποίησιϛ lo spazio della lirica greca: Pindaro ottava pitica

ἐπάμεροι τί δέ τις; τί δ' οὔ τις; σκιᾶς ὄναρ
ἄνθρωπος, αλλ' ὅταν αἴγλα διόσδοτος ἔλθη,
λαμπρόν φέγγος έπεστιν ανδρῶν καὶ μείλιχος αἰών

Esseri della durata d'un giorno. Che cosa siamo? Che cosa non siamo?
Sogno d' un'ombra l'uomo: ma quando un bagliore divino ci giunga
fulgido risplende sugli uomini il lume e dolce è la vita.

ἀθάνατοϛ ποίησιϛ lo spazio della lirica greca: Anacreonte, frammento 46

Ἐρέω τε δηὖτε χοὐχ ἐρέω
χαὶ μαίνομαι χοὐ μαίνομαι.

"Di nuovo amo e non amo,
son folle e non son folle".
Anacreonte Fr. 46 G.

Anacreonte nasconde l'intensità delle sue emozioni sotto la maschera di immagini leggiadre. Però, il filologo Albin Lesky ci fa notare che l'erotismo di Anacreonte non deve essere preso troppo sul serio, neppure però, deve essere sottovalutato perché egli sente la dolcezza della vita, a volte, quasi come un dolore: "Il fascino particolare di quest'arte [...] deriva da un singolare accostamento di contrari. Questo poeta che odia ogni eccesso e osserva con tanta sicurezza in se stesso la condizione intermedia fra l'amore e il non amore, la follia e la freddezza, domina sempre la propria espressione". Possiamo istituire un collegamento con un altro frammento di A. (Fr 111 G.) " Dadi di Eros sono le follie e i tumulti" l'idea dei tremendi effetti dell'amore è stemperata dall'immagine graziosa di un Amore bambino che gioca. Dunque il dramma eterno dell'amore e della follia, dell'amore e dell'odio, che scuote e devasta l'anima, Anacreonte non lo conobbe. Sfiorò Teogonide (1091 ss.) "Per il tuo amore sta male il mio cuore/ Lo so bene: è difficile odiare uno che si ama/ è difficile amare chi non vuole" Soltanto il nostro Catullo (c 85) espresse con la forza di un distico famosissimo e altrettanto angoscioso il dramma esistenziale di chi ama disperatamente: " Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris./ Nescio, sed fieri sentio et excrucior"..

Il banchetto della vita


Il manuale di Epitteto (Enchiridion) è composto da una serie di massime morali raccolte dal suo allievo Flavio Ariano. L'ideale di vita che si delinea è quello dello stoicismo, il saggio è l'uomo compos sui razionale, austero, capace di accettare serenamente tutto ciò che gli accade. La vita è qui paragonata a un banchetto, il commensale deve essere ben educato, servirsi con moderazione , e non essere smanioso nell'attesa del suo turno. Analogamente l'uomo assennato non dipende dai beni materiali, ed così degno di sedere accanto agli Dei. La perfezione arriva dunque quando l'uomo si rende insensibile a qualsiasi stimolo e riesce a dominare razionalmente le sue passioni: απάθεια (apatia). Il manuale di Epitteto ebbe una fortuna eccezionale nella storia delle filosofia e della letteratura: influenzò l'imperatore filosofo: Marco Aurelio, poi anche leopardi che lo tradusse in italiano, ed proprio sue la traduzione che vi voglio dare, poiché la trovo molto più bella e poetica delle traduzioni moderne.

Tieni a mente che tu ti déi governare in tutta la vita come a un banchetto. Portasi attorno una vivanda. Ti si ferma ella innanzi? stendi la mano, e pigliane costumatamente. Passa oltre? non la ritenere. Ancora non viene? non ti scagliar però in là collo appetito: aspetta che ella venga. Il simile in ciò che appartiene ai figliuoli, alla moglie, alla roba, alle dignità; e tu sarai degno di sedere una volta a mensa cogli Dei. Che se tu non toccherai pur quello che ti sarà posto innanzi, e non ne farai conto; allora tu sarai degno non solo di sedere cogli Dei a mensa, ma eziandio di regnare con esso loro. Per sì fatta guisa operando Diogene, Eraclito e gli altri simili, venivano chiamati divini, e tali erano veramente.

Costantino Kavafis I


E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo
per quanto sta in te: non sciuparla
nel troppo commercio con la gente
con troppe parole in un viavai frenetico.

Non sciuparla portandola in giro
in balìa del quotidiano
gioco balordo degli incontri
e degli inviti,
fino a farne una stucchevole estranea .


Come splendidi corpi di defunti sempreverdi
pianti e sepolti dentro un mausoleo
la testa fra le rose coi gelsomini ai piedi -
tali a noi sembrano i desideri che passarono
senza avverarsi mai; e non uno che trovasse
la sua notte di voluttà o un suo mattino lieto.


In queste buie stanze dove passo
giornate soffocanti, io brancolo
in cerca di finestre. Una se ne aprisse,
a mia consolazione. Ma non ci sono finestre
o sarò io che non le so trovare.
Meglio così, forse. Può darsi
che la luce mi porti altro tormento.
E poi chissà quante mai cose nuove ci rivelerebbero.

Federico Tavan



Federico Tavan nasce ad Andreis in provincia di Pordenone nel 1949, ha avuto un'esistenza difficile segnata da problemi psichici sin dalla giovane età. Egli scrive nel suo dialetto friulano, queste sono le uniche cose che sento di dire, spero che le sue poesie riescano a parlare molto di più. (le poesie sono tradotte in italiano)

Il destino di un uomo
Poteva capitare anche a te
di nascere in un pentolone
tra rospi e intrugli
di streghe senza processo
e il dolore grande di una madre.

Io mi sono trovato a passare
da quelle parti

Vorrei
vorrei così tanto
parlare
di fiori
di uccelli
e di mille colori
là dove la vita
è felice

Quattordici anni
C'era la neve.
Ridevo a voce alta.
Credevo di essere
in un latro paese.
Le stringevo la mano.
Avevo quattordici anni.
Camminavo controvento.
Devo uscire,
bisogna che esca.
Voglio giocare
voglio vivere io, voglio vivere.
A quattordici anni
si può.
O mai più.
(1963)

Mio nonno
Per lui io ero il Signore,
ero le stelle e l'acqua,
ero tutto quello che c'è al mondo.
E tutto il bene che mi ha dato
io non so dove andava a prenderlo.
Nessuna poesia, nessun paradiso
mi rende il bene di mio nonno.

Quando mi sono innamorato
Quando mi sono innamorato
il cuore batteva:
lasciati andare,
questo è l'amore.
Io ho stretto i denti,
il cuore ha taciuto.

Andreis
Quattro case in croce.
Se non fuggi in tempo,
qui diventi vecchio e muori.
Qualche prato,
due tre montagne.
Se non fuggi,
non fuggi più:
diventi Andreis.

Ricordo un giorno professoressa
Non ti ho
più rivista
professoressa.
La vita separa
riportando ognuno
al suo nascondiglio.
Ognuno ha il suo cuore
ognuno ha la sua mente,
professoressa,
e il destino ce lo meritiamo.
Terza C
vent'anni fa
dodici chilometri di corriera
tu che arrossivi
spiegando Boccaccio
le mie poesie impugnate
come rose insanguinate,
quattro anni più di me
ci si poteva anche amare
ma io quella volta volavo,
professoressa.
Tutto quello che allora ti dicevo
si è avverato
il mio lungo sogno
ha attraversato il tempo e lo spazio.
Ricordo un giorno professoressa
durante l'ora di ricreazione
m'hai chiesto a bruciapelo:
"ma allora che farai?".
Ho indicato con i miei timidi occhi
l'esatta metà del muro che ci stava davanti:
"posso arrivare soltanto fin là,
per me è come salire in cima".

Mi ricordo mamma
Mi ricordo di quando
in una stanza d'ospedale
stringevo forte
la mano di mia madre

La guardavo negli occhi gialli
che mi lasciavano per sempre

poi le ho detto
-Mamma, io e te
non possiamo altro che morire.

Federico Tavan
da " Da màrcheus a madònes".

Costantino Kavafis ITACA













ITACA

Se per Itaca volgi il tuo viaggio,
fa' voti che ti sia lunga la via,
e colma di vicende e conoscenze.
Non temere i Lestrigoni e i Ciclopi
o Poseidone incollerito: mai
troverai tali mostri sulla via,
se resta il tuo pensiero alto e squisita
è l'emozione che ci tocca il cuore
e il corpo. Né Lestrigoni o Ciclopi
né Poseidone asprigno incontrerai,
se non li rechi dentro, nel tuo cuore,
se non li drizza il cuore innanzi a te.

Fa voti che ti sia lunga la via.
E siano tanti i mattini d'estate
che ti vedano entrare (e con che gioia
allegra) in porti sconosciuti prima.
Fa scalo negli empori dei Fenici
per acquistare bella mercanzia,
madrepore e coralli, ebani e ambre,
voluttuosi aromi d'ogni sorta,
quanti più puoi voluttuosi aromi.
Recati in molte città dell'Egitto,
a imparare dai sapienti.

Itaca tieni sempre nella mente.
La tua sorte ti segna a quell'approdo.
Ma non precipitare il tuo viaggio.
Meglio che duri molti anni, che vecchio
tu finalmente attracchi all'isoletta,
ricco di quanto guadagnasti in via,
senza aspettare che ti dia ricchezze.

Itaca t'ha donato il bel viaggio.
Senza di lei non ti mettevi in via.
Nulla ha da darti più.

E se la ritrovi povera, Itaca non t'ha illuso.
Reduce così saggio, così esperto,
avrai capito che vuol dire un'Itaca.

Costantino Kavafis

Linque tuas sedes alienaque litora quaere, 
iuvenis : maior rerum tibi nascitur ordo.
Ne succumbe malis : te noverit ultimus Hister,
te Boreas gelidus securaque regna Canopi,
quique renascentem Phoebum cernuntque cadentem;
maior in externas fit qui^ descendit harenas.
Petronio Arbitro.


Lucrezio, i testi: l'inno a Venere De rerum natura I 1-43



Aeneadum genetrix, hominum divumque voluptas,
alma Venus, caeli subter labentia signa
quae mare navigerum, quae terras frugiferentis
concelebras, per te quoniam genus omne animantum
concipitur visitque exortum lumina solis: 5
te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli
adventumque tuum, tibi suavis daedala tellus
summittit flores, tibi rident aequora ponti
placatumque nitet diffuso lumine caelum.
nam simul ac species patefactast verna diei 10
et reserata viget genitabilis aura favoni,
aeriae primum volucris te, diva, tuumque
significant initum perculsae corda tua vi.
inde ferae pecudes persultant pabula laeta 15
et rapidos tranant amnis: ita capta lepore 14
te sequitur cupide quo quamque inducere pergis. 16
denique per maria ac montis fluviosque rapacis
frondiferasque domos avium camposque virentis
omnibus incutiens blandum per pectora amorem
efficis ut cupide generatim saecla propagent. 20
quae quoniam rerum naturam sola gubernas
nec sine te quicquam dias in luminis oras
exoritur neque fit laetum neque amabile quicquam,
te sociam studeo scribendis versibus esse,
quos ego de rerum natura pangere conor 25
Memmiadae nostro, quem tu, dea, tempore in omni
omnibus ornatum voluisti excellere rebus.
quo magis aeternum da dictis, diva, leporem.
effice ut interea fera moenera militiai
per maria ac terras omnis sopita quiescant; 30
nam tu sola potes tranquilla pace iuvare
mortalis, quoniam belli fera moenera Mavors
armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se
reiicit aeterno devictus vulnere amoris,
atque ita suspiciens tereti cervice reposta 35
pascit amore avidos inhians in te, dea, visus
eque tuo pendet resupini spiritus ore.
hunc tu, diva, tuo recubantem corpore sancto
circum fusa super, suavis ex ore loquellas
funde petens placidam Romanis, incluta, pacem; 40
nam neque nos agere hoc patriai tempore iniquo
possumus aequo animo nec Memmi clara propago
talibus in rebus communi desse saluti.



Madre degli Eneadi, piacere degli uomini e degli dei
alma venere che sotto le mobili volte stellate
vivifichi il mare pieno di barche e la terra che porta frutti
attraverso la tua azione ogni essere vivente
è concepito e vede nato la luce del sole
fuggono da te, o dea, i venti, e al tuo arrivo
le nubi del cielo, per te la terra industriosa
fa cresce dolci fiori, per te ridono le marine distese
e palcato, il cielo, risplende di luce diffusa.
Infatti, non appena si apre alla vista un giorno primaverile
e soffia con forza la brezza fecondatrice del Favonio liberato dai vincoli,
gli uccelli per primi annunziano te e il tuo arrivo,
colpiti nel cuore dalla tua forza.
Poi le fere belve e gli armenti gioiscono per i lieti pascoli
e attraversano i vorticosi fiumi così ognuno preso dal piacere
ti segue bramosamente dovunque tu voglia menarlo.
Insomma per mari e i monti e fiumi impetuosi
e le frondose case degli uccelli, e i verdi campi
spirando a tutti per il petto un blando amore
fai in modo che le stirpi cupidamente si propaghino per generazioni.
E poiché tu sola governi la natura delle cose
né qualsiasi cosa nasce senza di te nelle celesti regioni della luce,
né esiste qualcosa di lieto o amabile,
vorrei che tu fossi la mia musa nel scrivere versi,
che desidero cantare della natura delle cose
per il nostro Memmio, che tu, o dea, in ogni tempo
volesti che splendesse in tutte le cose ornato di virtù.
Per questo da', o dea, eterna bellezza alle mie parole.
Frattanto fa' in modo che le violente azioni militari
sia per mare sia per terra cessino sopite.
Infatti tu sola puoi giovare ai mortali con una tranquilla pace
poiché Marte che governa le guerre,
si stende, sfinito dall'eterna ferita d'amore, sul tuo seno,
e così guardandoti reclinato il liscio collo
pasce d'amore, a te anelando, gli avidi sguardi,
e mentre è sdraiato pende dalla tua bocca il sospiro,
tu o diva abbraccialo col tuo corpo santo mentre riposa,
fai scendere alla tua bocca dolci parole
chiedendo tranquilla e gloriosa pace per i Romani;
infatti noi non possiamo scrivere, senza preoccupazioni,
in questo tempo travagliato per la patria, né alla famosa stirpe di Memmio
in questi tempi non può mancare la salvezza comune.

Come abbiamo già visto Lucrezio è fortemente iconoclasta e critico verso il pantheon tradizionale romano, e non strano che inizi un poema, dove espone delle tesi materialistiche con l'invocazione della dea Venere? Come si concilia la supplica a Venere con la teologia epicurea che vedeva gli dei come degli enti estranei alla vita dell'uomo? Sono numerose le interpretazioni di questo inno. Alcuni vi vedono la celebrazione della pax, uno dei valori epicurei, di cui la dea è depositaria, altri considerano venere il simbolo della voluptas, , personificazione della forza fecondatrice della natura o allegoria del principio di vita cintrapposto al principio di morte che sarebbe Marte. Oppure alcuni vi vedono la personificazione del conflitto empedocleo tra φιλία ed ἔρις amore ed odio. Non bisogna neppure scordarsi che Venere era la dea protettrice del casato di Memmio, il destinatario dell'opera. Nel passo sono presenti alcune caratteristiche tipiche della lingua poetica lucreziana: le forme arcaicizzanti, le numerose anafore e allitterazioni, le perifrasi poetiche. Tali forme sono state consapevolmente utilizzate per rendere il lepos la grazia sottile nella composizione. Tutta la scena dell'epifania della dea è stata delineata con termini derivati dal campo semantico della luminosità. Venere è comunque vista come una musa, come una divinità ispiratrice, la sola capace di rendere leggerezza e grazia allo scritto. I versi 1 e 2 sono dedicati all'invocazione della dea, poi vi è la cosiddetta aretologia, cioè l rassegna delle virtù della dea e poi le richieste di favori. Segue l'excursus sul mito e compare ancora una richiesta per la dea.

giovedì 9 aprile 2009

Lucrezio, piccola introduzione


Vorrei partire con Lucrezio, uno degli autori che mi sta più a cuore.
Sono pochissime le notizie riguardo la vita di Lucrezio, San Girolamo scrisse che morì suicida a quaranta quattro anni. Visse durante gli anni burrascosi delle guerre civili, questo dettaglio è molto importante per comprendere la sua opera. Egli scrisse un poema di esametri diviso in sei libri: il De rerum natura, la natura delle cose. Lucrezio vide nelle dottrine di Epicuro una soluzione alla violenza che opprimeva il suo mondo. L'epicureismo era l'unica via che portava alla liberazione delle paure ataviche: la morte, il timore verso gli dei, l'aldilà, che portano l'uomo verso l'infelicità. Ma come si può conciliare lo studio della natura, la scienza, la conoscenza delle leggi meccaniche che soggiaciono al mondo, con l'intento di portare la felicità agli uomini, con l'etica? La conoscenza dei fenomeni fisici avrebbe potuto liberare gli uomini dai falsi timori e dalle superstizioni legate all'ignoranza. E qui bisogna puntualizzare il genere letterario del nostro poema: Lucrezio scrisse, infatti, un poema didascalico. Ecco un altro interrogativo, come si fa a diffondere una dottrina ardua come quella epicurea al popolo romano? Il trattato certamente sarebbe stato un mezzo comunicativo poco efficace. Quindi preferì fare uso della poesia, in un brano molto famoso egli, attraverso la metafora del medico, che spalma gli orli del bicchiere, dov'è contenuta una medicina amara, con del miele, esprime la sua poetica. Così la poesia serve a rendere più gradevole l'ardua dottrina epicurea, che è medicina dell'anima. Di qui il suo stile poetico perennemente elevato ed elaborato. Questo poema a mio parere sopravvisse soltanto per il suo stile. Lucrezio, infatti, sosteneva che la religione opprimeva con il suo peso la vita degli uomini turbando ogni loro gioia con la paura. Il nostro autore, man mano che spiega la natura delle cose cerca di tener desta l'attenzione del suo "discepolo", lo esorta a non perdersi e a non credere che la dottrina, che sta esponendo non è errata. Il suo argomentare è profondamente scientifico, utilizza il metodo del sillogismo a una premessa fa sempre seguire una conclusione che argomenta con un uso molto ricco di immagini. Quello dell'immagine è un tratto saliente della poesia lucreziana, la lingua latina era povera di termini tecnici, così i concetti filosofici dovevano essere trattati attraverso l'uso di immagini e metafore. Così a una retorica del mirabile, si sostituisce una retorica del necessario, che il contrario del miracoloso. Il destinatario fatto responsabile agli insegnamenti diventa responsabile della sua grandezza intellettuale. Questa è la radice del sublime, che non è solo una forma stilistica, ma anche una forma di di interpretazione e percezione del mondo. Possiamo notare come nel testo Lucreziano vi sia una carica rivoluzionaria, egli mette in discussione tutti i valori tradizionali della società romana, i fondamenti sociali culturali e religiosi, il mos maiorum. Come disse bene il latinista Concetto Marchesi: "la scienza ebbe in Lucrezio il suo unico grande poeta". Ma non fu il primo a mettere in poesia argomenti filosofici come Senofane, Empedocle e Parmenide. In particolare è interessante notare il titolo del poema di Empedocle: Περὶ Φύσεως, Perì phýseōs, attorno la natura. Oltre a questi modelli, Lucrezio riprese, dal punto di vista letterario, Omero e i tragici greci. Ad esempio, nel'elogio a Epicuro del libro primo Lucrezio ha ripreso l'Iliade ( XVII 166 ss.), la descrizione delle tranquille dimore degli dei ( De rer. III 19-22) è modellata sulla base dei versi 42 e ss. del libro VI dell'Odissea, e la narrazione dela scrificio di Ifigenia è esemplata sullo schema euripideo. Oltre a questi riprese anche Tucidide per quanto riguarda la descrizione della peste d'Atene nel libro sesto. Vi si possono scorgere anche echi dei lirici greci come saffo, oppure, per quanto riguarda la poetica Callimaco, e i richimi al locus amoenus a Teocrito. A parte questi precedenti greci importantissimo per capire lo stile arcaicizzante lucreziano è l'influsso del poeta latino Ennio. Lucrezio, per quanto riguarda le scelte lessicali, sintattiche, fonologiche e metriche ricalca molto lo stile di Ennio. Lucrezio, infatti, per perseguire il lepos, una grazia sottile nello scrivere, fa un uso massiccio di termini arcaicizzanti. Come abbiamo visto in precedenza, l'intento di Lucreio era quello di rendere sereno l'animo degli uomini liberandolo dai falsi timori provocati dall'ignoranza delle cause. Ma nel corso del poema vediamo che vi sono descrizioni fosche e pessimistiche. In un famosissimo passo del libro quinto il poeta insiste al lungo sul fatto che la natura è del tutto incurante delle esigenze degli uomini. Addiruttra il suo poema termina con la devastante descrizione delle peste di Atene. Non bisogna però credenre che Lucrezio abbia abiurato le sue tesi epicuree per rifugiarsi in un cupo pessimismo, anzi tali digressioni non certo felici fanno parte dell'economia del poema. La ratio da lui esposta è forira di serenità, che trae origine dalla comprensione razionale dei meccanismi di nascita, vita e morte della natura. Inoltre, in particolare l'episodio della peste di Atene, mette in luce le mare conseguenze dell'ignoranza, il terrore atavo della morte e l'egoismo degli uomini. Quindi tali parti del poema risulatano essere degli esempi.
Il testo del De rerum natura è quasi interamnente conservato in due codici del IX secolo detti Oblungus (O) e Quadratus (Q) conservati a Copenhagen e a Vienna. Un certo numero di codici umanistici riprende il testo tratto scoperto e lacunosamente emendato da Poggio Bracciolini nel 1418. L'editio priceps, cioè la prima edizione a stampa, fu eseguita nel 1473 da Ferrando da Brescia.

iniziamo

Buona sera a tutti voi, o lettori, in questo libero spazio mi piacerebbe discutere di argomenti legati alla letteratura. I testi tradotti e commentati saranno la base di bervi critiche, ragguagli appunto. I Ragguagli di Parnaso ( nome ripreso da un'opera secentesca di Traiano Boccalini) cercheranno di mettere a fuoco alcune tematiche presenti nella letteratura, di inquadrarle nel contesto letterario, mettendo in luce le caratteristiche stilistiche. Si cercherà, inoltre, di collegare testi appartenenti a culture e a periodi differenti. Sarebbe bello, anche, corredare i vari testi con brani musicali.
Ora non resta che iniziare.