venerdì 31 luglio 2009

il mito di Orfeo ed Euridice da Ovidio

IL MITO DI ORFEO ED EURIDICE.
Inde per inmensum croceo velatus amictu
aethera digreditur Ciconumque Hymenaeus ad oras
tendit et Orphea nequiquam voce vocatur.
adfuit ille quidem, sed nec sollemnia verba
nec laetos vultus nec felix attulit omen. 5
fax quoque, quam tenuit, lacrimoso stridula fumo
usque fuit nullosque invenit motibus ignes.
exitus auspicio gravior: nam nupta per herbas
dum nova naiadum turba comitata vagatur,
occidit in talum serpentis dente recepto. 10
quam satis ad superas postquam Rhodopeius auras
deflevit vates, ne non temptaret et umbras,
ad Styga Taenaria est ausus descendere porta
perque leves populos simulacraque functa sepulcro
Persephonen adiit inamoenaque regna tenentem 15
umbrarum dominum pulsisque ad carmina nervis
sic ait: 'o positi sub terra numina mundi,
in quem reccidimus, quicquid mortale creamur,
si licet et falsi positis ambagibus oris
vera loqui sinitis, non huc, ut opaca viderem 20
Tartara, descendi, nec uti villosa colubris
terna Medusaei vincirem guttura monstri:
causa viae est coniunx, in quam calcata venenum
vipera diffudit crescentesque abstulit annos.
posse pati volui nec me temptasse negabo: 25
vicit Amor. supera deus hic bene notus in ora est;
an sit et hic, dubito: sed et hic tamen auguror esse,
famaque si veteris non est mentita rapinae,
vos quoque iunxit Amor. per ego haec loca plena timoris,
per Chaos hoc ingens vastique silentia regni, 30
Eurydices, oro, properata retexite fata.
omnia debemur vobis, paulumque morati
serius aut citius sedem properamus ad unam.
tendimus huc omnes, haec est domus ultima, vosque
humani generis longissima regna tenetis. 35
haec quoque, cum iustos matura peregerit annos,
iuris erit vestri: pro munere poscimus usum;
quodsi fata negant veniam pro coniuge, certum est
nolle redire mihi: leto gaudete duorum.'
Talia dicentem nervosque ad verba moventem 40
exsangues flebant animae; nec Tantalus undam
captavit refugam, stupuitque Ixionis orbis,
nec carpsere iecur volucres, urnisque vacarunt
Belides, inque tuo sedisti, Sisyphe, saxo.
tunc primum lacrimis victarum carmine fama est 45
Eumenidum maduisse genas, nec regia coniunx
sustinet oranti nec, qui regit ima, negare,
Eurydicenque vocant: umbras erat illa recentes
inter et incessit passu de vulnere tardo.
hanc simul et legem Rhodopeius accipit heros, 50
ne flectat retro sua lumina, donec Avernas
exierit valles; aut inrita dona futura.
carpitur adclivis per muta silentia trames,
arduus, obscurus, caligine densus opaca,
nec procul afuerunt telluris margine summae: 55
hic, ne deficeret, metuens avidusque videndi
flexit amans oculos, et protinus illa relapsa est,
bracchiaque intendens prendique et prendere certans
nil nisi cedentes infelix arripit auras.
iamque iterum moriens non est de coniuge quicquam 60
questa suo (quid enim nisi se quereretur amatam?)
supremumque 'vale,' quod iam vix auribus ille
acciperet, dixit revolutaque rursus eodem est.
Non aliter stupuit gemina nece coniugis Orpheus,
quam tria qui timidus, medio portante catenas, 65
colla canis vidit, quem non pavor ante reliquit,
quam natura prior saxo per corpus oborto,
quique in se crimen traxit voluitque videri
Olenos esse nocens, tuque, o confisa figurae,
infelix Lethaea, tuae, iunctissima quondam 70
pectora, nunc lapides, quos umida sustinet Ide.
orantem frustraque iterum transire volentem
portitor arcuerat: septem tamen ille diebus
squalidus in ripa Cereris sine munere sedit;
cura dolorque animi lacrimaeque alimenta fuere. 75
esse deos Erebi crudeles questus, in altam
se recipit Rhodopen pulsumque aquilonibus Haemum.
(P. Ovidi Nasonis Metamorphoseon liber X vv1-77)

TRADUZIONE
Di là s’allontanava, coperto dal suo dorato mantello, per il vasto cielo, Imeneo, andò verso le coste dei Ciconi e venne invocato invano dalla voce di Orfeo. Quello certamente giunse, ma senza i canti nuziali, senza il volto lieto e non portò buoni presagi; anche la fiaccola, che suole stringere nella sua mano, emise, stridula, un fumo portatore di lacrime; benché scossa non divampò. Il risultato fu ancora più grave. Infatti la sposa mentre passeggiava per i prati accompagnata da un gruppo di naiadi, cadde morta penetratole in un piede il dente di un serpente. Il poeta del Rodope dopo che l’ebbe pianta abbastanza nel mondo dei mortali, e per tentar di commuovere anche le ombre, osò discendere fino alla porta Tenaria. Vagò per le turbe leggere delle ombre e dei sepolti, andò al cospetto di Persefone e del signore che tiene il dominio del non bel regno dei morti. Toccate le corde per accompagnare il canto, incominciò: « O dei del mondo posto sotto la terra verso il quale tendiamo a ricadere noi che siamo creati mortali, se è permesso, deposto un discorso che inganna, lasciatemi dire il vero, non discesi qui per vedere il Tartaro senza luce, né per vincere i tre villosi colli di serpente della stirpe di Medusa; la causa della mia venuta è Euridce. nel quale piede una vipera calpestata inoculò il veleno e le sottrasse gli anni fiorenti. Ho voluto poterne sopportare il dolore, non negherò di non aver tentato, ma Amore ha vinto! Questo dio è ben noto sulla terra; mi chiedo se lo sia anche qui, ma mi auguro di si, se non è falso si racconta che anche voi foste uniti da Amore. Per questi luoghi pieni di timore, per questa tenebra infinita e per il vasto regno del silenzio, vi prego, ritessete i fati affrettati di Euridice! Ogni cosa è a voi soggetta, Dopo esserci trattenuti un po’ sulla terra, corriamo, chi prima chi dopo, verso una sola sede. Tutti noi tendiamo qui,m questa è l’ultima dimora, voi tenete il dominio più durevole sul genere umano. Anche lei, quando vecchia saranno volti alla fine gli anni della sua vita, sarà a buon diritto vostra. ve la chiedo solo in prestito. E se i fati negano il perdono per la sposa, è certo che io non vorrò tornare, in tal modo godrete per la morte di due!» Mentre diceva queste cose e muoveva le corde accompagnando il canto, le anime esangui piangevano, Tantalo non cercava di carpire l’onda che rifugge e si fermò la ruota di Issione né gli avvoltoi rosero il fegato a Tizio, le Belidi lasciarono stare le brocche, infine tu, Sisifo, facesti cadere il tuo masso e vi sedesti sopra. E’ fama, che allora, per la prima volta si bagnarono di lacrime, per la commozione, le guance delle Eumenidi, né i re ebbero il coraggio di opporsi alle preghiere, e fecero chiamare Euridice. Ella era tra le ombre recenti e incedette con il passo lento per la ferita. Orfeo Rodopeio la prese per la mano e ricevette l’ordine di non volgere dietro gli occhi, finché non fosse uscito dall’Averno, o sarebbe stato inutile il dono. S’ avviano per l’erto, oscuro sentiero, pieno di caligine opaca, attraverso i muti silenzi. Non eran molto lontani dalla uscita degli inferi, lì, temendo che non ci fosse, avido di vederla voltò gli occhi: e subito lei ricadde avanzando le braccia tentando di prendere lui e di essere ripresa: infelice non afferro nient’altro ché che l’aria che vola via. Morendo per una seconda volta, non ha nulla da rimproverare al marito, se non il fatto di essere stata amata. Fu l’ultimo saluto, saluto che giunse a stento. E tornò nuovamente nello stesso luogo. Orfeo si raggelò per la seconda morte dell’amata, come colui che pieno di spavento vide Cerbero dai tre colli essere incatenato per quello di mezzo e trascinato fuori dagli inferi, il cui timore non svanì prima che tornò la natura di prima, trasmutato egli in sasso. O come Oleno che volle essere considerato colpevole, e te infelice Letea, che, altera, confidasti troppo della tua bellezza, cuori una volta molto uniti, ora siete pietre, che s’innalzano sull’umido Ida. Orfeo pregando invano e volendo entrare per una seconda volta aveva supplicato Caronte, sedette per sette giorni sulla squallida riva, senza toccare cibo: gli furono alimento la preoccupazione, il dolore dell’animo e le lacrime. Dopo essersi lamentato della crudeltà degli dei dell’ebro, si rifugiò sull’elevato Rodope e sull’Emo colpito dagli Aquiloni.

Il trionfo della morte, Orazio

Questo componimento, denominato da La Penna "la regina delle Odi", segna l'ultima parte delle composizioni Oraziane, quando ormai il poeta è vecchio e stanco. Il trionfo della morte non risparmia nessuno neppure il pius Enea, con allusioni anche al pessimismo Lucreziano e in risposta all'ottimismo di Virgilio. Orazio si congeda da noi come una persona che non è riuscita a realizzare il suo ideale di autàrkeia.

Diffugere nives, redeunt iam gramina campis
arboribusque comae;
mutat terra vices et decrescentia ripas
flumina praetereunt;
Gratia cum Nymphis geminisque sororibus audet
ducere nuda choros.
Immortalia ne speres, monet annus et almum
quae rapit hora diem.
Frigora mitescunt Zephyris, ver proterit aestas
interitura, simul
pomifer autumnus fruges effuderit, et mox
bruma recurrit iners.
Damna tamen celeres reparant caelestia lunae:
nos ubi decidimus
quo pater Aeneas, quo Tullus dives et Ancus,
pulvis et umbra sumus.
Quis scit, an adiciant hodiernae crastina summae
tempora di superi?
Cuncta manus avidas fugient heredis, amico
quae dederis animo.
Cum semel occideris et de te splendida Minos
fecerit arbitria,
non, Torquate, genus, non te facundia, non te
restituet pietas:
infernis neque enim tenebris Diana pudicum
liberat Hyppolitum,
nec Lethaea valet Theseus abrumpere caro
vincula Pirithoo.


Si sono sciolte le nevi e già ritornano nei campi le erbe
e le chiome agli alberi,
la terra muta il suo aspetto e i fiumi quasi in secca
scorrono sulle rive;
Una Grazia con le Ninfe e le sorelle Gemelle osa
condurre nuda i cori.
Non sperare nelle cose immortali, ti ammonisce l'anno
e l'alma (=vivificatrice) ora che rapisce il giorno.
I freddi sono mitigati dagli Zefiri, l'estate supera la primavera
destinata a morire non appena
l'autunno portatore di frutti avrà elargito le messi,
e ritorna la bruma(=inverno, termine arcaico latinismo utilizzato dal Petrarca) inerte.
Frattanto le celeri lune riparano i danni del cielo:
noi quando discendemmo
dove c'è il pio Enea e dove ci sono il ricco Tullio e Anco,
siamo polvere ed ombra.
Chi sa se alla somma dei giorni di oggi, gli dei immortali,
vorranno aggiungere quella del domani?
Tutte le cose che avrai dato al tuo animo in vita
sfuggiranno alla mani avide dell'erede.
Una volta che sarai spirato, su di te Minosse
avrà declamato la sua splendida sentenza,
o Torquato, non il tuo nobile lignaggio, non le tue doti oratorie,
non la tua pietà, ti restituiranno la vita,
infatti né Diana libera dall'inferno il pudico Ippolito,
né Teseo riesce a infrangere i letei vincoli al caro Pritoo.



Dimenticavo il metro è la : Strofe Archilochea seconda. E' formata da un esametro ee da una tripodia dattilica catalettica in syllabam. _/ UU; _/ UU, _U/. (Sillaba ancipite accentata.)

Sono comunque presenti riferimenti alla letteratura greca, riguardo al concetto del dissolvimento del corpo dopo la morte, che ricorre spesso nei tragici: ad esempio Sofocle, Elettra 1158 "Ti rese a me, invece ella cara persona cenere e una vana ombra"
o Euripide fr 523 Nauck: " Una volta morto ogni uomo è terra e ombra". Altro riferimento alla cultura greca, ma sua piano linguistico è l'uso dell'aggettivo amico, che equivale a tuo, secondo un uso poetico greco ( specialmente omerico) del termine phílos (φίλος)

Tibullo Elegia I 1-45

Di Albio Tibullo sappiamo ben poco, nacque intorno al 50 a.C. in Lazio, vi evito poi altri dettagli sulla vita. Le opere di Tibullo sono inserite in una raccolta di libri chiamata Corpus Tibullianum. Seguendo il modello elegiaco, Tibullo predilige una vita appartata e semplice, dove alla vita rurale si accompagnavano amori. Di fronte alle angosce di una vita angosciosa spesa in città, tra gli affari e il lusso, portatori di preoccupazioni, la campagna si presentava come un porto sicuro , un rifugio di pace e serenità. Se Properzio l'evasione la trovava nel mondo mitologico, tibullo la trova nella vita agreste, però per entrambi sono due mondi di sogno e aspirazione. Infatti per il nostro autore la campagna non è un luogo X, ma un luogo ideale dove sarebbe possibile la felicità lontana dalle tensioni quotidiane. Tale caratteristica la si può notare nel suo stile: egli infatti fa uso spesse volte di futuri e congiuntivi desiderativi e non indicativi. Lo stile di Tibullo è semplice e lineare, tale però è frutto di un controllo stilistico e e di cura formale, non di trascuratezza e di mancata ricercatezza; è interessante, ergo, notare come lo giudicò Quintiliano: "tersus atque elegans". Voglio porgervi qui l'elegia proemiale, che probabilmente venne composta a libro finito, ma collocata all'inizio perché programmatica. Troviamo,infatti, i temi tipici della poesia tibulliana: il rifiuto della guerra, l'aspirazione verso una vita di campagna, in cui l'amore per il mondo rurale si fonde con l'amore per la "domina". Vi è il contrasto tra la vita semplice e passata nell'ombra, ma certamente felice, del poeta, e le dannose aspirazioni belliche di coloro che vogliono conseguire la gloria anche a scapito della loro stessa vita. Tibullo era certamente molto apprezzato nell'antichità, però cn lo scorrere del tempo perse fama e la riacquistò durante l'umanesimo, ciò è testimoniato dall'assenza di codici tradoantichi e medievali, i primi codici conosciuti sono:l'Ambrosiano (A) del 1375, e il Vaticano Latino 3270 di inizio '400.

Divitias alius fulvo sibi congerat auro
Et teneat culti iugera multa soli,
Quem labor adsiduus vicino terreat hoste,
Martia cui somnos classica pulsa fugent:
Me mea paupertas vita traducat inerti, 5
Dum meus adsiduo luceat igne focus.
Ipse seram teneras maturo tempore vites
Rusticus et facili grandia poma manu;
Nec spes destituat, sed frugum semper acervos
Praebeat et pleno pinguia musta lacu. 10
Nam veneror, seu stipes habet desertus in agris
Seu vetus in trivio florida serta lapis,
Et quodcumque mihi pomum novus educat annus,
Libatum agricolae ponitur ante deo.
Flava Ceres, tibi sit nostro de rure corona 15
Spicea, quae templi pendeat ante fores,
Pomosisque ruber custos ponatur in hortis,
Terreat ut saeva falce Priapus aves.
Vos quoque, felicis quondam, nunc pauperis agri
Custodes, fertis munera vestra, Lares. 20
Tunc vitula innumeros lustrabat caesa iuvencos,
Nunc agna exigui est hostia parva soli.
Agna cadet vobis, quam circum rustica pubes
Clamet 'io messes et bona vina date'.
Iam modo iam possim contentus vivere parvo 25
Nec semper longae deditus esse viae,
Sed Canis aestivos ortus vitare sub umbra
Arboris ad rivos praetereuntis aquae.
Nec tamen interdum pudeat tenuisse bidentem
Aut stimulo tardos increpuisse boves, 30
Non agnamve sinu pigeat fetumve capellae
Desertum oblita matre referre domum.
At vos exiguo pecori, furesque lupique,
Parcite: de magno est praeda petenda grege.
Hic ego pastoremque meum lustrare quotannis 35
Et placidam soleo spargere lacte Palem.
Adsitis, divi, neu vos e paupere mensa
Dona nec e puris spernite fictilibus.
Fictilia antiquus primum sibi fecit agrestis
Pocula, de facili conposuitque luto. 40
Non ego divitias patrum fructusque requiro,
Quos tulit antiquo condita messis avo:
Parva seges satis est, satis requiescere lecto
Si licet et solito membra levare toro.
Quam iuvat inmites ventos audire cubantem 45
Et dominam tenero continuisse sinu
Aut, gelidas hibernus aquas cum fuderit Auster,
Securum somnos igne iuvante sequi.


Altri ammassino per sé ricchezze d'oro splendente
e tengano molti iugeri di terra coltivata,
e lo preoccupi l'ansia per il nemico vicino,
Il suono marziale delle trombe gli tolga il sonno:
me accompagni la mia povertà ad una vita tranquilla,
purché il mio focolare rifulga di luce assidua.
Io stesso come contadino pianterò a tempo opportuno le viti
e con mano esperta splendidi alberi da frutto:
la Speranza non deluda ma offra sempre covoni di grano
e un tino sempre pieno di mosto.
Perché io venero sia un ceppo lasciato nei campi
sia la vecchia pietra all'incrocio tra più strade a cui si recano corone di fiori
e qualunque frutto che l'anno nuovo fa crescere
lo pongo dinnanzi al dio agreste.
Bionda Cerere abbi una corona di spighe dal nostro campo
affinché penda davanti alle porte del tempio;
si ponga nei fertili orti un rosso custode,
un Priapo che spaventi, con la minacciosa falce, gli uccelli.
Voi anche, una volta felici, custodi
di un povero campo, riceve i doni a voi spettanti, o Lari.
Allora l'uccisione di una vitella purificava innumerevoli giovenchi:
ora una piccola agnella è vittima di un piccolo campo.
L'agnella cadrà per voi: ed intorno ad essa la rustica gioventù
canterà: " evviva date date messi e buon vino !".
Ch'io possa, ch'io possa contento vivere con poco,
né essere sempre dedito alla luna via,
ma evitare il sorgere estivo della canicola all'ombra di un albero
alla riva di un ruscello di acqua fresca.
Né per giunta mi vergogno di tenere il bidente,
o di stimolare i lenti buoi con il pungolo;
non mi spiacerà riportare in braccio all'ovile un'agnella
o un piccolo capretto abbandonato per la madre dimentica.
Ma voi ladri e lupi risparmiate il piccolo gregge:
da un grande gregge deve essere ricercata la preda.
Qui io sono solito ogni anno purificare il mio pastore
e spargere latte alla placida Pale.
Assistetemi, o dei, e non disprezzate i doni dalla mia povera mensa
né da vasi d'argilla.
L'antico contadino si costruì per primo vasi d'argilla
e li plasmò da malleabile creta.
Non richiedo le ricchezze e i guadagni dei padri
che la messe riposta forniva all'antico avo:
un piccolo raccolto mi basta; è sufficiente riposare nel mio letto
e distendere il mio corpo sul solito divano.
Quanto è bello ascoltare mentre si è a letto il vento minaccioso,
e tenere l'amata in un tenero abbraccio,
o quando lo scirocco invernale rovescia gelide acque
e abbandonarsi sicuro al sonno all'invito della pioggia.

Finalmente giunge amore

Tandem venit amor, qualem texisse pudori
quam nudasse alicui sit mihi fama magis.
Exorata meis illum Cytherea Camenis
attulit in nostrum deposuitque sinum.
Exsoluit promissa Venus: mea gaudia narret, 5
dicetur si quis non habuisse sua.
Non ego signatis quicquam mandare tabellis,
ne legat id nemo quam meus ante, velim,1
sed peccasse iuvat, vultus componere famae
taedet: cum digno digna fuisse ferar. 10

1: alcuni ammettono " me legat ut nemo quam meus ante..."

I cinque distici sarebbero opera di una giovane di nobile rango: Sulpicia, questo è il primo dei suoi biglietti d'amore, inviati a un non identificato amante Cerinthus. La spiegazione etimologica del nome dell'amante è derivato dalla voce greca kéras , corrispondente al latino cornu, non basta però a comprovare che il giovane sia il cornuto di due elegie di Tibullo. La giovane poetessa , incurante delle norme che nella società romana regolavano il pudore femminile. Essa affida, all'elegia proemiale, il suo orgoglio e la sua gioia di donna innamorata : l'amore è giunto e va dichiarato a tutti, è dolce peccare, disgustoso rimanere pudiche. La donna prova fastidio nell'atteggiarsi in modo da sembrare una ragazza per bene, una sanata, è un raro tocco di sincerità, contro l'ipocrisia di un sistema morale opprimente. E' grande la passione che quasi non vorrebbe neanche affidare le sua parole alle tevvlette sigillate, ella vuole, mentre arde d'amore, dichiarare i suoi sentimenti all'amato senza passare da alcun intermediario.

Finalmente è arrivato l'amore che a tenerlo nascosto per il pudore
ne avrei più disgusto che a rivelarlo a qualcuno.
La Dea Citera, supplicata dalle mie poesie
l'ha portato e l'ha deposto sul mio seno.
Venere ha esaudito le promesse, e sparli della mia gioia
colui di cui si dice che non ha mai goduto le sue gioie.
Io non vorrei affidare nulla alle tavolette di cera,
affinché nessuno legga le poesie prima del mio amore,
sono felice di aver peccato, mi disgusta-però- adeguare i miei atteggiamenti alle circostanze
si possa pure dire che io degna sono stata con uno degno di me.

Lucrezio, felicità e infelicità nella sua opera

Lucrezio da buon maestro cerca di dare un’indicazione al suo lettore per raggiungere la vera felicità. Nel libro III del De rerum natura Lucrezio insiste sulla natura dell’anima, legata indissolubilmente al corpo materiale, e rivolge la sua attenzione sulla riflessione riguardo la morte. Molti critici, tra cui Carlo Giussani, considerano centrale il libro III nell’ambito del poema poiché rivolto a fugare la paura dell’aldilà la quale impedisce il raggiungimento della voluptas il piacere. Nel finale del libro Lucrezio si dedica a chiarire le ragioni dell’inquietudine che grava sulla vita umana. Gli uomini avvertono il peso che opprime il loro animo e, ignorandone, la causa, vivono inquieti spostandosi continuamente, senza riuscire a liberarsi dall’oppressione, poiché cercano invano di sfuggire a se stessi. Se conoscessero la causa del loro male si dedicherebbero solo allo studio della filosofia e a chiedersi cosa aspetti loro dopo la morte. Il canto della contemplazione della morte si conclude con il canto della finitezza della vita, nel discorso di Lucrezio non si menziona la voluptas, vi domina l’amaro di una realtà priva di illusioni, probabilmente, non a caso, l’autore aprirà il IV libro con la trionfante e gioiosa ripetizione ( I 926-950) del suo programma poetico, incentrato sulla metafora del miele, che deve fluire abbondantemente per celare l’amara medicina. Il taedium (la « tetra noia » per dirla come il Parini), la levitas (la morbosa inconstanza), la commutatio loci ( la smania di cambiare luogo), sono mali tipici dell’ignorante e della folla privi dell’ ἀταραξία del sapines epicureo.

Si possent homines, proinde ac sentire videntur
pondus inesse animo, quod se gravitate fatiget,
e quibus id fiat causis quoque noscere et unde
tanta mali tam quam moles in pectore constet,
haut ita vitam agerent, ut nunc plerumque videmus
quid sibi quisque velit nescire et quaerere semper,
commutare locum, quasi onus deponere possit.
exit saepe foras magnis ex aedibus ille,
esse domi quem pertaesumst, subitoque ,
quippe foris nihilo melius qui sentiat esse.
currit agens mannos ad villam praecipitanter
auxilium tectis quasi ferre ardentibus instans;
oscitat extemplo, tetigit cum limina villae,
aut abit in somnum gravis atque oblivia quaerit,
aut etiam properans urbem petit atque revisit.
hoc se quisque modo fugit, at quem scilicet, ut fit,
effugere haut potis est: ingratius haeret et odit
propterea, morbi quia causam non tenet aeger;
quam bene si videat, iam rebus quisque relictis
naturam primum studeat cognoscere rerum,
temporis aeterni quoniam, non unius horae,
ambigitur status, in quo sit mortalibus omnis
aetas, post mortem quae restat cumque manenda.
Denique tanto opere in dubiis trepidare periclis
quae mala nos subigit vitai tanta cupido?
certe equidem finis vitae mortalibus adstat
nec devitari letum pote, quin obeamus.
praeterea versamur ibidem atque insumus usque
nec nova vivendo procuditur ulla voluptas;
sed dum abest quod avemus, id exsuperare videtur
cetera; post aliud, cum contigit illud, avemus
et sitis aequa tenet vitai semper hiantis.
posteraque in dubiost fortunam quam vehat aetas,
quidve ferat nobis casus quive exitus instet.
nec prorsum vitam ducendo demimus hilum
tempore de mortis nec delibare valemus,
quo minus esse diu possimus forte perempti.
proinde licet quot vis vivendo condere saecla,
mors aeterna tamen nihilo minus illa manebit,
nec minus ille diu iam non erit, ex hodierno
lumine qui finem vitai fecit, et ille,
mensibus atque annis qui multis occidit ante.
(Lucrezio De rerum natura III 1053-1099)

Traduzione (la traduzione non è stupenda però è tutta mia)

Se gli uomini potessero, così come si vede che avvertono / che nel loro animo è insito un macigno che li affatica con il suo grande peso, / conoscere da che cosa esso sia causato, / e poiché una tanto grande fardello rimanga ancorato uguale nell’animo, / non vivrebbero in questo modo, come noi per lo più vediamo, che non sa cosa voglia, e cerca sempre di cambiare luogo come se potesse deporre il peso. Quello che si annoia a stare a casa, esce sempre dai grandi palazzi, e subito vi ritorna, dal momento che s’accorge che fuori non v’è nulla di meglio di quanto c’è nella dimora. / Precipitosamente accorre alla villa di campagna aizzando i cavalli, / incalzando come se dovesse portare l’acqua ai tetti che bruciano; / subito sbadiglia, non appena tocca la soglia della casa, / o si immerge nel sonno profondo e cerca di obliare, / o affrettandosi si rivolge verso la città e la riguarda. / In questo modo fugge se stesso, ma questo, come accade, / non riesce a scappare, perciò vi rimane attaccato ed odia, / poiché il malato non conosce la causa della sua malattia; / e questo se ben vedesse, già lasciate da parte tutte le altre cose, / per primo s’impegnerebbe a conoscere la natura delle cose, dal momento che non si discute d’una sola ora, / ma del tempo eterno in cui tutti i mortali sono destinati a passare, / quantunque ne rimanga dopo la morte. / Successivamente quale tanto grande e terribile brama di vivere/ ci costrinse con grande violenza a trepidare in dubbiosi pericoli? / Ai mortali è destinata una fine certa, / né possiamo evitare la morte: ci andiamo incontro. / Inoltre ci muoviamo sempre nello stesso luogo, continuamente rimaniamo prigionieri / né vivendo si schiude alcun nuovo piacere. / Ma mentre ciò che desideriamo è lontano , tale brama sembra / che prenda il sopravvento sulle altre brame, poi , quando si ottiene l’oggetto del desiderio,/ subito ne si vuole un altro e un’eguale sete di vita trattiene coloro che smaniano ardentemente. / Poi, è in dubbio che sorte ci riservi il tempo futuro, / cosa ci porti il caso e quel esito si avvicini. / Né andando avanti a vivere toglieremo qualcosa / al tempo della morte, né riusciremo ad offenderlo / per strappare alla morte qualche secondo. / Allora è permesso vivendo che tu seppellisca quante generazioni vuoi; / non di meno rimarrà quella morte eterna, / né più di tanto quello rimarrà / colui che vide per l’ultima volta oggi il lume della vita, / e colui che è scomparso da anni e anni. l’integrazionw al testo mutilo dei codici è del Poliziano. Praecipitanter, Hapax-legomenon (ἅπαξ λεγόμενον, è una parola che compare una sola volta in un testo e sono utili ai filologi) tale termine sembra coniato da Lucrezio. Fugit il Madvig propone fugitat. Ingratis emendamento del Lambino ( i codici ripotano ingratius). Manenda emendamento del Lambino (i codici riportano manendo).

Notiamo già nelle prime righe dell’estratto un’antitesi tra videntur (è un verbo chiave e presuppone la conoscenza coi sensi) e noscere. La protasi dell’irrealtà sembra rilevare il dato di fatto che il noscere è diverso dal sentire umano e attesta la condizione di coloro che non vivono per la saggezza e non vogliono conoscere la natura delle cose e in virtù di ciò vivono in un perenne stato di angoscia. Lucrezio in questo caso, da buon scienziato, osserva un fenomeno: l’inquietudine degli uomini, ne cerca le cause e i principidi spiegazione. Egli le rintraccia nella superstizione e nella paura per la morte. Oltre a cercare le cause, il nostro autore trova una soluzione al senso di ansietà degli uomini. L’uomo non conosce l’oggetto del suo volere, cerca qualcosa in più al di fuori di esso, ma non riesce ad afferrarlo. Così si dedicano a una moltitudine di attività che possano far dimenticar loro il senso di inquietudine, la paura della morte. Ma la morte non è nulla per l’uomo: “Nil igitur mors est ad nos neque pertinet hilum” (De rerum natura III 830 q£natoj oÙd prÕj 1m©j· tÕ g¦r dialuq ¢naisqhte‹,
tÕ d' ¢naisqhtoàn oÙd prÕj m©j, «nulla è per noi la morte; perché ciò che è dissolto è insensibile, e ciò che è insensibile non è niente per noi» Epicuro (5,2 Arr.)), poiché gli atomi che compongono i corpi sono costretti ad aggregarsi e a disgregarsi continuamente: nulla nasce dal nulla, nulla ritorna al nulla. Il brano, molto incalzante, è caratterizzato da una densa quantità di verbi che starebbero a sottolineare l’affannoso movimento di colui che viaggia e non ha pace. La descrizione è sempre più vivace nei particolari realistici della corsa affannosa: sbadigli, sonno per dimenticare, anche ritorno in città. In particolare gravis e revisit esprimono lo stato d’animo del ricco accasciato dal torpore della noia o freneticamente ansioso di cambiare luogo. Da notare l’accortissima collocazione dei termini che riassumono i fondamenti dottrinali del verbo di Epicuro e l’essenza dello stesso poema lucreziano (studeat, cognoscere v. 1072) e l’accostamento dell’avverbio primum ( che indica la preminenza assoluta dello studio scientifico della natura su ogni altro interesse filosofico) ai termini più concettualmente significativi: “naturam rerum”. Per Lucrezio è fondamentale non preoccuparsi di come trascorrere le ore della vita, ma cercare di sapere quale eventuale esistenza ci attende dopo la morte. Questo passo sembra spesso agli studiosi poco coerente con il pensiero epicureo , perché pare avanzare un’ipotesi di una vita dopo la morte, già ampiamente negata nel corso del libro III. In realtà Lucrezio non si contraddice e tiene a sottolineare la vanità delle occupazioni cui si dedica l’uomo annoiato, l’importanza dello studio filosofico, che verte sulla problematica dell’eternità. Naturalmente la ricerca filosofica condotta sulle orme di Epicuro porterà a negare che una qualsiasi vita attenderà gli uomini dopo la morte. La chiusa del libro è il trionfo del pessimismo lucreziano la mala cupido vitae, la brama ardente di vivere, non solo non giova ad evitare la morte (nec devitari letum) ma neppure ad aggiungere nuovi piaceri (nec nova vivendo procluditur ulla voluptas) né a sottrasi un solo istante dall’inevitabile fine: la vita ha un termine naturalmente fissato. Questa brama di vivere, che istintivamente fa pensare alla volontà di vivere di Schopenhauer, ci schiaccia e ci impedisce il raggiungimento di una serena saggezza. Nulla cambia nella natura, siamo sempre in balia dei nostri interessi contingenti, le misere menti degli uomini si dimenano continuamente senza scopo cercando di cambiare qualcosa che non può essere cambiato: la legge materiale della natura è immutabile. Essi vagano senza meta perdendo di vista l’obiettivo principale della vita: la saggezza, ma dandosi ai piaceri non necessari. Tali oggetti non potranno mai colmare il vuoto poiché “sed dum abest quod avemus, id exsuperare videtur /cetera; post aliud, cum contigit illud, avemus / et sitis aequa tenet vitai semper hiantis” queste parole sembrano anticipare le drammatiche pagine di Leopardi e di Schopenhauer. Il canto si chiude con un climax ascendente: gli ultimi versi suonano quasi come un trionfo della morte. La nostra vita è finita ed è determinata dal caso, non possiamo sottrarle nemmeno un momento, sarebbe totalmente inutile. Il saggio, invece, non ha bisogno di “scalfire il tempo della morte” poiché è giunto alla consapevolezza che la morte non è nulla ed inutile cambiare continuamente luoghi per obliare la sua angoscia.

Qui si apre un dibattito che ha occupato i principali interpreti di Lucrezio: il presunto pessimismo. Sembra strano, che Lucrezio, cantore dell’epicureismo, di una dottrina tendenzialmente ottimistica, presenti spunti pessimistici. Ettore Bignone (in Lucrezio come interprete della filosofia di Epicuro) e Adelmo Barigazzi ( in Lucrezio. La vita e la morte nell’universo. Paravia Torino 1974) sostengono la tesi dell’ottimismo e quindi della piena adesione alla scuola epicurea. Certamente nel poema vi sono cupe immagini di morte e dolore, sostengono quegli studiosi, ma esse devono essere considerate alla luce della dottrina epicurea. Tramite la conoscenza delle leggi della natura e, quindi, anche dei lati negativi di essa si può raggiungere la felicità. Sostenitore della tesi opposta è Luciano Perelli ( in Lucrezio poeta dell’angoscia), nel suo saggio si configura un’immagine di un Lucrezio dubbioso e afflitto dal dubbio che non ha più fiducia nella dottrina epicurea. C’è comunque da notare che Perelli ha utilizzato in maniera massiccia l’analisi psicanalitica che è certamente poco valida nell’analisi di un testo antico. La tesi dell’ottimismo lucreziano trova indubbiamente un elemento di forza, poiché il fine della scuola epicurea starebbe nel liberare l’uomo dall’angoscia, è più persuasivo riconoscere l’esistenza del male nel mondo, ma, al contempo, nutrire la fiducia che grazie alla ragione l’uomo possa giungere alla felicità. La giusta via di mediazione ci è data da Gian Biagio Conte:” i luoghi più eloquenti dell’opera sono le ferite che il conflitto ha lasciato dietro di sé nella dottrina: sotto un certo aspetto le fratture di un pensiero sono più essenziali della continuità che salvaguarda la coerenza logica. […] Di qui l’adito alla polemica contro le illusioni, tanto aspramente avversate perché tanto faticoso è stato liberarsene” (op. cit.). Riconoscere il male e la morte come parti del reale non sono l’indizio di un carattere esistenzialisticamente angosciato, ma segno di una capacità di abbracciare la vita nei suoi aspetti di luce e di ombra.
D’altronde il IV libro si apre con l’immagine luminosa del topos miele-poesia quasi a stemperare i toni cupi e drammatici della chiusa del libro III. Tutti i libri si aprono con immagini splendenti e luminose: il primo con l’inno a venere e l’inno ad Epicuro salvatore degli uomini, il secondo si apre con un’esaltazione del saggio epicureo, il terzo il quinto e il sesto con degli elogi ad Epicuro.

Lucrezio, come accennato, ci dà, oltre alla descrizione di una stirpe umana cieca che non sa raggiungere la vera felicità, il ritratto del saggio beato. Il proemio del libro II prospetta il collegamento con l’etica saldando la conoscenza della natura alla conquista della felicità. In esso sono celebrati i principi fondamentali dell’etica epicurea dall’identificazione del piacere stabile con l’aponìa e con l’ataraxìa all’esortazione a godere le gioie di una vita ritirata (láthe biôsas). Fin dai tempi di Voltaire in questa pagina di Lucrezio è stata ravvisata una sorta di egoistico compiacimento nel sentirsi libero dai pregiudizi e dalle passioni, infatti questo proemio era stato intitolato “rapsodia per una serenità egoistica” . L’ideale di vita che vi traspare viene contrapposto ai modelli negativi della vita associata della continua ricerca di ricchezze e potere militare, da Lucrezio stigmatizzati anche in altri luoghi del poema (cfr. 3, 59 sgg. e 995 sgg.) e dopo di lui sviluppati da Virgilio nel finale del libro II delle Georgiche.

(Testo 2)
Suave, mari magno turbantibus aequora ventis
e terra magnum alterius spectare laborem;
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
sed quibus ipse malis careas quia cernere suave est.
suave etiam belli certamina magna tueri
per campos instructa tua sine parte pericli;
sed nihil dulcius est, bene quam munita tenere
edita doctrina sapientum templa serena,
despicere unde queas alios passimque videre
errare atque viam palantis quaerere vitae,
certare ingenio, contendere nobilitate,
noctes atque dies niti praestante labore
ad summas emergere opes rerumque potiri.
o miseras hominum mentis, o pectora caeca!
qualibus in tenebris vitae quantisque periclis
degitur hoc aevi quod cumquest! nonne videre
nihil aliud sibi naturam latrare, nisi ut qui
corpore seiunctus dolor absit, mente fruatur
iucundo sensu cura semota metuque?
ergo corpoream ad naturam pauca videmus
esse opus omnino: quae demant cumque dolorem,
delicias quoque uti multas substernere possint
gratius interdum, neque natura ipsa requirit,
si non aurea sunt iuvenum simulacra per aedes
lampadas igniferas manibus retinentia dextris,
lumina nocturnis epulis ut suppeditentur,
nec domus argento fulget auroque renidet
nec citharae reboant laqueata aurataque templa,
cum tamen inter se prostrati in gramine molli
propter aquae rivum sub ramis arboris altae
non magnis opibus iucunde corpora curant,
praesertim cum tempestas adridet et anni
tempora conspergunt viridantis floribus herbas.
nec calidae citius decedunt corpore febres,
textilibus si in picturis ostroque rubenti
iacteris, quam si in plebeia veste cubandum est.
quapropter quoniam nihil nostro in corpore gazae
proficiunt neque nobilitas nec gloria regni,
quod super est, animo quoque nil prodesse putandum;
si non forte tuas legiones per loca campi
fervere cum videas belli simulacra cientis,
subsidiis magnis et ecum vi constabilitas,
ornatas armis statuas pariterque animatas,
his tibi tum rebus timefactae religiones
effugiunt animo pavidae mortisque timores
tum vacuum pectus lincunt curaque solutum.
quod si ridicula haec ludibriaque esse videmus,
re veraque metus hominum curaeque sequaces
nec metuunt sonitus armorum nec fera tela
audacterque inter reges rerumque potentis
versantur neque fulgorem reverentur ab auro
nec clarum vestis splendorem purpureai,
quid dubitas quin omnis sit haec rationis potestas,
omnis cum in tenebris praesertim vita laboret?
nam vel uti pueri trepidant atque omnia caecis
in tenebris metuunt, sic nos in luce timemus
inter dum, nihilo quae sunt metuenda magis quam
quae pueri in tenebris pavitant finguntque futura.
hunc igitur terrorem animi tenebrasque necessest
non radii solis neque lucida tela diei
discutiant, sed naturae species ratioque.
(Lucrezio De rerum natura II 1-61)

Traduzione

E’ dolce, quando il vasto mare è sconvolto dai venti, / guardare da terra il grande travaglio degli altri, / non per provar piacere dalle svenute altrui, / ma, poiché, allieta vedere da quali mali ci si è sottratti. / E’ dolce, anche, osservare i grandi scontri di guerra / sugli schieramenti, senza essere in pericolo. / Ma non v’è nulla di più dolce del risiedere sugli alti templi sereni / resi sicuri dalla dottrina dei sapienti / dall’alto dei quali si possono osservare gli altri e vederli /smarriti errare qua e là ricercando la via della vita: / gareggiare per l’ingegno, combattere per la nobiltà, / sforzarsi di giorno e di notte con ingente fatica / a giungere a eccelsa opulenza e d’impadronirsi il potere. / Oh misere menti degli uomini, o cuori insensibili! / In quali tenebre, in quali pericoli trascorriamo / questo poco di vita, quale esso sia. E come non vedere / che la natura non reclama nulla per sé, se non / che il dolore se ne stia lontano dal corpo e che / nell’animo goda d’una giocosa sensazione sciolta dagli affanni e dal timore? / Quindi notiamo che alla natura corporea bastino veramente / poche cose che leniscano il dolore, / sicché possano dispensare molti dolci piaceri. / talvolta è più piacevole- né la stessa natura lo richiede, / se non vi sono statue dorate per le stanze d’una villa, / che tengano con le destre delle lampade, / per illuminare i banchetti notturni, / è che la casa risplenda d’oro e d’argento, / né che le cetre facciano rimbombare i soffitti intagliati e dorati- / quando, tuttavia, fra amici, vicino a un corso d’acqua, / sotto le fronde di un albero, / senza grandi agi, si prendono cura del corpo, / specialmente il tempo sorride e la stagione / propizia cosparge i campi verdi di fiori. / Né le febbri abbandonano prima il corpo caldo/ se ci si rigira in coperte dipinte e rose di porpora, / piuttosto che si dorma in una veste plebea. / Poiché i tesori, la nobiltà e la gloria di regno / non giovano nulla al nostro corpo, / per il resto non bisogna pensare nemmeno che servano alla nostra anima; / a meno, per caso, vedendo le tue legioni / muoversi fervidamente per il campo di battaglia, suscitando immagini di guerra / rafforzate da truppe ausiliarie e dalla forza dei cavalli, / equipaggiate d’armi e parimenti animate di spirito bellicoso, / e vedendo la flotta veleggiare ampiamente, / le superstizioni atterrite da questi fatti / fuggano da te pavide; e i timori della morte / ti lascino il cuore leggero e sciolto da preoccupazioni. / E se queste cose ci paiono ridicole e degne di scherno, / in verità le paure degli uomini e le preoccupazioni che ne conseguono / non temono né il suono delle armi né le lance minacciose / audacemente s’aggirano tra i re e tra i ricchi / né hanno reverenza per il fulgore dell’oro / né del luminoso splendore d’una veste purpurea, / perché dubiti che il potere sia tutto della ragione, / essendo tutta la vita travagliata nelle tenebre? / Infatti come i fanciulli tremano e / temono tutto nelle buie tenebre, così noi / alla luce temiamo quelle cose che per niente si debbono temere / di più di quelle che spaventano i fanciulli nelle tenebre immaginandole imminenti. / E’, allora, necessario che questo timore dell’animo e queste tenebre / non vengano dissipate né dai raggi del sole né dai lucenti dardi del giorno, / ma dallo studio e dell’osservazione della natura.

Il saggio assapora la felicità stando tranquillo a contemplare l’affanno altrui. In questo modo, infatti, acquista la percezione del piacere, che consiste nella mancanza di dolore e turbamento. L’inizio del brano è lento, quasi affannoso, con la triplice anafora di suave, poi sempre più mosso e concitato fino che il poeta si lascia coinvolgere dal compianto per la miseria umana. Enjambements, esclamazioni, interrogazioni e riprese accentuano l’impatto emotivo del testo, stemprata, poi, in una ricca serie di immagini Il lessico nettamente positivo ( suave, dulcius, edita, serena, iucundu sensu, Gratis, in luce ) che connota la felicità del saggio, si contrappone ad espressioni negative ( tenebris, errare, mortisque timores, religiones, terrorem animi, metus hominum cauraeque ). Nell’incipit del brano si intrecciano numerosi riferimenti colti: l’immagine potente dello scampato alla tempesta, il quale dalla terraferma contempla, compiaciuto, le traversia del naufrago, era diffusa nella letteratura classica: Sofocle fr. 579N.; Archiloco fr. 43 K.; Cicerone Att II 7,4; a cui si possono aggiungere i versi 902-911 del terzo stasimo delle Baccanti di Euripide, e Orazio Epistola I 11,10. L’espressione non è da intendere nel senso che il saggio provi piacere di fronte al disagio altrui, ma che, assistendo da lontano, dall’alto della ragione, al meschino affannarsi degli altri uomini si sente libero dai mali che spingono ad affrontare rischi e pericoli di ogni genere e assapora la vera felicità, che consiste nella mancanza di dolore. La scrittura di Lucrezio continua in un incessante intreccio di parole che tendono a sottolineare l’altezza dello stile: suave è replicato con variatio e climax, il lessico è ricercato ed elegante, in certare ingenio e contendere nobilitate l’allitterazione degli infiniti e la cesura del verso accentuano il parallelismo dei due cola. Già nei versi 8-13 incominciano ad accentuarsi le differenze tra colui il quale risiede sui Templa serena dei saggi, e colui il quae erra senza scopo nel mondo, senza trovare un fine, ma si sforza per raggiungere una felicità che risulterà essere effimera. Questi versi dal forte impatto emotivo (despicere unde il verbo dà comunque l’idea dell’osservare dall’alto verso il basso… errare atuqe viam palantis quaerere vitae… certare ingenio…contendere nobilitate… rerumque potiri”) ci ricordano quelli del brano precedentemente proposto dove erano elencate con un ritmo incalzante tutte le varie azioni che il ricco annoiato compiva per a fuggire al malessere della vita. In questi versi, lo si vedrà più avanti, viene data un’indicazione chiara e esemplificata per raggiungere la vera serenità. A questa parte luminosa e solare si contrappone una seconda parte buia e tenebrosa: o miseras hominum mentis, o pectora caeca (v14), l’esclamazione è rimarcata dal chiasmo degli accusativi che pone in rilievo gli attributi, dalla forte cesura eftemimera, dalle evidenti assonanze della della m e della c, sa notarsi anche l’evidente metonimia di gusto virgiliano. L’impeto di questi versi risuona anche nell’ XI canto del Paradiso dantesco: “oh insensata cura de’mortali, / quanto son difettivi sillogismi / quei che ti fanno in basso batter l’ali!” (vv.1-3). Vi è poi un crescendo di drammaticità, l’ interrogativa retorica “nonne videre…” (v.16), nella forma del cosiddetto infinitum indignationis rende più patetica l’argomentazione, che trova il culmine al verso 17: “nil aliud sibi naturam latrare…”. La natura grida imperiosamente, animalescamente, il verbo latrare, forse connesso etimologicamente con lamentum, inserisce l’analogia nell’uso letterario che trova un suo precedente in Ennio (animusque in pecora latrat v.481 Skutsch) e in Omero (XX 13), riferito al cuore che latra dal dentro (come in Ennio): ὕστατα καὶ πύματα· κραδίη δέ οἱ ἔνδον ὑλάκτει… (..per l’ultima volta, il suo cuore di dentro latrava, di cui il verbo ὑλάκτει indica proprio il latrare dei cani). Ma l’immagine della natura che grida imperiosamente le sue richieste è anche in Epicuro, fr. 22 Arrighetti “ Non considerare innaturale, che, quando grida la carne anche l’anima gridi. Il grido della carne è: non aver fame, non aver sete e non aver freddo”. L’mmagine ha una forte intensità proprio per richiamare l’attenzione sui due concetti basilari della morale epicurea, che verranno poi enunciati: l’assenza di dolore e l’assenza di turbamento. La soddisfazione dei desideri del corpo richiede assai poco: non sono necessari banchetti in ambienti sfarzosi, infatti il contatto con la natura e l’amici basta per raggiungere la felicità, senza indulgere in un lusso fine a se stesso. Secondo la classificazione epicurea, quelli che tolgono il dolore sono i piaceri naturali e necessari. La soddisfazione dei desideri naturali e necessari non solo toglie il dolore, ma assicura anche molti piaceri, come secondo l’esempio, il mangiare e il bere in compagnia. Già il verbo substernere (v.22) è di per se eloquente (letteralmente “stendere sotto”) indica l’apporto di piacere implicito legato ai bisogni essenziali dell’uomo. Ai pochi beni necessari Lucrezio accosta i piaceri superflui , di cui quelli non naturali (vv24-28), che sono nocivi e quelli necessari e naturali, ammessi dalla dottrina epicurea. Lucrezio, riprendendo dei versi omerici, evoca il clima inutilmente sfarzoso delle ville romane. Le statue di giovani reggenti fiaccole compaiono nella descrizione di Omero della villa di Alcinoo:
χρύσειοι δ' ἄρα κοῦροι ἐϋδμήτων ἐπὶ βωμῶν
ἕστασαν αἰθομένας δαΐδας μετὰ χερσὶν ἔχοντες,
φαίνοντες νύκτας κατὰ δώματα δαιτυμόνεσσι.
(Omero, Odissea VII 100-102)
Successivamente in questi versi Lucrezio delinea un quadro paesaggistico ameno, idilliaco, che sarà l’unico modello latino della poesia bucolico pastorale virgiliana. Al ridente quadro dei piaceri naturali, Lucrezio oppone una nuova visone antitetica: i malanni non vengono allontanati più rapidamente da un tenore di vita lussuoso, che da uno modesto. Tutti mali che affliggono gli uomini: le superstizioni religiose , non possono essere fugati attraverso inutili prove di forza. Infatti Lucrezio tende a sottolinearlo utilizzando clausole ironiche come “si non forte” al verso 40. Da notarsi, comunque il clima tutto romano della scena delle esercitazioni militari, forse uno dei pochi collegamenti che il nostro autore fa con il suo periodo storico. Qual è dunque la via di fuga a questi mali? Lo studio appassionato della natura e dei suoi meccanismi. In questo caso ci allacciamo al testo del libro III, infatti, la soluzione che viene esposta è sostanzialmente la stessa: lo studio della natura. La ricchezza e il potere ( nel libro III erano descritte delle azioni di un ricco nobile annoiato) non riescono a prevalere sulle angosce e sulle paure che affliggono gli uomini. Lutezio nell’argomentare procede per espressioni binarie (es. ridicula… ludibriaque), ma la ridondanza qui ha la funzione di instaurare un rapporto tra le paure e le preoccupazioni quasi personificate. Il brano va via via concludendosi con una metafora colta ripresa dal Fedone (77) di Platone, l’espressione dei fanciulli che temono le tenebre interpreta suggestivamente e allusivamente il contrasto tra l’ignoranza del Vero e la dottrina del filosofo. Gli uomini, a differenza dei bambini, hanno paura anche alla luce del sole perché essa non riesce a dissipare le tenebre dell’intelletto. Come usuale in Lucrezio l’argomentazione si conclude con una formula quasi con degli epifonemi. In questo caso la chiusura è del tutto simile a quella del libro III ed insiste sul fatto, ripreso in tutto il poema, che il timor e l’horror gravano sulla vita degli uomini come conseguenza della paura degli dei.

mercoledì 1 luglio 2009

Saffo Fr. 134 Voig

θελω τί τ'εἴπην ἀλλά με κωλύει
αἴδως [ ]
αι δ'ἦχες ἔσλων ἴμερον η καλων
καὶ μή τι τ'εἴπην γλῶσσ'ἐκύκα κακον
αἴδως (crux desperationis) κέν σε οὐκ (crux desperationis) ἦχεν οππατ'
αλλ' ἔλεγες περὶ τὼ δικαίω ( crux desperationis)

Ti voglio dire una cosa
ma mi trattiene la vergogna
Se nel tuo cuore ci fossero
cose nobili o buone
e non s'arrestasse la lingua
in qualche brutto pensiero
la vergogna non coprirebbe i tuoi occhi
e parleresti in modo onesto.

Saffo Fr. 134 Voig