lunedì 9 novembre 2009

Antologia Siciliana. "Guiderdone aspetto avere" Giacomo da Lentini.

Metro: canzone di quattro coblas singulars secondo lo schema: aab, ccb, ded(e)f, ghg(h)f. Collegamento a coblas capfinidas tra le strofi II e III , possibile (lontano ma percepibile) collegamento di disperanza tra la prima e la seconda coblas ( 7//15). Rime siciliane: 1 avere, 2 servire, 25 ride, 27 vede, 43 perisca, 44 'incresca.

Guiderdone aspetto avere
da voi, donna, cui servire
no m’enoia;
ancor che mi siate altera
5sempre spero avere intera
d’amor gioia.
Non vivo in disperanza,
ancor che mi disfidi
la vostra disdegnanza:
10ca spesse volte vidi, – ed è provato,
omo di poco affare
pervenire in gran loco;
se lo sape avanzare,
moltipricar lo poco – c’à ’quistato.

15 In disperanza no mi getto,
ch’io medesmo mi ’mprometto
d’aver bene:
di bon core la lëanza
ch’i’ vi porto, e la speranza
20mi mantene.
Però no mi scoraggio
d’Amor che m’à distretto;
sì com’omo salvaggio
faraggio, com’è detto – ch’ello face:
25per lo reo tempo ride,
sperando che poi pera
lo laido aire che vede;
da donna troppo fera – spero pace.

S’io pur spero in allegranza,
30fina donna, pïetanza
in voi si mova.
Fina donna, no mi siate
fera, poi tanta bieltate
in voi si trova:
35ca donna c’à bellezze
ed è senza pietade,
com’omo [è] c’à richezze
ed usa scarsitade – di ciò c’ave;
se non è bene apreso,
40nodruto ed insegnato,
da ogn’omo ’nd’è ripreso,
orruto e dispregiato – e posto a grave.

Donna mia, ch’eo non perisca:
s’eo vi prego, no vi ’ncresca
45mia preghera.
Le bellezze che ’n voi pare
mi distringe, e lo sguardare
de la cera;
la figura piacente
50lo core mi diranca:
quando voi tegno mente
lo spirito mi manca – e torna in ghiaccio.
Né-mica mi spaventa
l’amoroso volere
55di ciò che m’atalenta,
ch’eo no lo posso avere, – und’eo mi sfaccio.
(Giacomo da Lentini, I poeti della scuola Siciliana, vol. 1 a cura di R. Antonelli)

Nella canzone notiamo una forte mescolanza di metri (ottonari, settenari, quadrisillabi, endecasillabi a rima interna formati da un quadrisillabo e da un settenario), tale forma verrà proggressivamente ridotta nella lirica sicilian, fino, poi, all'abolizione con la teorizzazione dantesca dell'eccellenza della combinazione di settenario ed endecasillabo. Tale disponiblità prosodica è unica nel panorama lentiniano e quasi dichiara l'importanza della tematica affrontata: la ricompensa d'amore, nodo centrale della lirica in lingua d'oc. Giacomo richiede la ricompensa d'amore, ma con pessimismo si rende conto del fellimento della sua azione e della riduzione di se stesso ad essere inanimato. Non è possibile portare a compimento il proprio amore, se non in casi eccezionali. Questa canzone ha poi avuto un'importanza particolare per i successivi poeti, che ne ripresero singoli motivi e spunti tematici.
Il guiderdone è la ricompensa d'amore, è un termine ripreso dai rimatori provenzali, ad esempio Folchetto da Marsiglia: Amors merce. Inoltre possiamo individuare molte parole chiave della lirica cortese: enoia, nella tradizione trobadorica è attestata la serie noia e gioia. Alcuni manscritti riportano, come lectio facilior noia a posto di enoia. Ma da notare anche la tipica rima siciliana avere : servire (aviri : serviri) che mette in risalto il secondo termine chiava della lirica che sarebbe il servizio d'amore.

venerdì 6 novembre 2009

La donna abbandonata dal mondo classico a quello romanzo I



La donna in attesa: Penelope.
La tradizione letteraria ci tramanda la figura di Penelope, come modello di perfetta moglie che riesce a resistere alla lunga lontananza del marito. Ella ha un contegno coraggioso dinnanzi ai Proci, ma si sente abbandonata, così da lasciarsi in balia della speranza e della disperazione. Essi tentano di impadronirsi della casa e sposare Penelope, a questi pretendenti, che banchettano per anni nella dimora di Odisseo, impegnato valorosamente nella guerra, si oppongono le volontà di Telemaco e della stessa Penelope. Così parla Telemaco, ignaro di rivolgersi ad Atena (Od. I 247-251):

"...τόσσοι μητέρ' ἐμὴν μνῶνται, τρύχουσι δὲ οἶκον.
ἡ δ' οὔτ' ἀρνεῖται στυγερὸν γάμον οὔτε τελευτὴν
ποιῆσαι δύναται· τοὶ δὲ φθινύθουσιν ἔδοντες
οἶκον ἐμόν· τάχα δή με διαῤῥαίσουσι καὶ αὐτόν."

Tanti aspirano alle nozze di mia madre e distruggono la casa.
Ella non nega l'odiosa proposta di matrimonio, né può trovare
una soluzione, essi intanto banchettano e mandano la casa
in rovina e sbraneranno, certo, tra poco anche me.

La situazione è difficile, Penelope non capisce la drammaticità della situazione e si trova incerta dinnanzi al dubbio di una situazione incerta, alle pressioni di uomini violenti e vogliosi. Ad essa rimane solo il ricordo del marito partito per la guerra. I Proci spodestano l'eroe Odisseo, non hanno rispetto per la sacralità della casa e trascorrono giornate oziose in banchetti. Dunque a cosa si deve dedicare la moglie durante l'assenza del marito e questo diventerà un topos della letteratura dell'abbandono, la moglie deve attendere ai lavori domestici e attendere con pazienza, piangendo nell'intimo della propria stanza. Così risponde Telemaco a Penelope. (Od. I 356-364)

"...ἀλλ' εἰς οἶκον ἰοῦσα τὰ σ' αὐτῆς ἔργα κόμιζε,
ἱστόν τ' ἠλακάτην τε, καὶ ἀμφιπόλοισι κέλευε
ἔργον ἐποίχεσθαι· μῦθος δ' ἄνδρεσσι μελήσει
πᾶσι, μάλιστα δ' ἐμοί· τοῦ γὰρ κράτος ἔστ' ἐνὶ οἴκῳ."
ἡ μὲν θαμβήσασα πάλιν οἶκόνδε βεβήκει·
παιδὸς γὰρ μῦθον πεπνυμένον ἔνθετο θυμῷ.
ἐς δ' ὑπερῷ' ἀναβᾶσα σὺν ἀμφιπόλοισι γυναιξὶ
κλαῖεν ἔπειτ' Ὀδυσῆα, φίλον πόσιν, ὄφρα οἱ ὕπνον
ἡδὺν ἐπὶ βλεφάροισι βάλε γλαυκῶπις Ἀθήνη."

"...Ma tu ora rientra nelle stanze, preoccupati dei tuoi lavori
la tela e la lana, ed esorta le ancelle
che attendano al lavoro. Tutti i pubblici discorsi appartengono agli uomini,
specialmente a me, poiché è mio il potere nella casa."
La madre stupita tornò indietro nelle stanze
e accolse nell'animo il discorso del figlio ispirato dalla saggezza,
salì di sopra accompagnata dalle ancelle,
pianse Odisseo, suo caro sposo, finché Atena
dallo sguardo fulgido, le infuse sulle palpebre un dolce sonno.

Vengono qui menzionati da Telemaco i lavori tipici delle donne, ai quali debbono attendere mentre il talamo nuziale è vuoto ἱστόν τ' ἠλακάτην, sono la tela e la lana, che si potrebbero tradurre per translato: il fuso e il telaio. Vediamo come nei testi porti alla lettura vi sia il continuo riferimento all' οἶκος, alla casa. Alla moglie spettava il mantenimento delle mura domestiche mentre il marito si allontanava da esse. Nel caso specifico dell'Odissea questi lavori domestici divengono il pretesto dell'inganno, che Penelope, donna dotata d'intelligenza, ordisce nei confronti dei proci, che invadono la sua casa e tentano di usurpare il trono del caro marito, che viene compianto privatamente. Il dolore, ma anche la speranza la portano ad attendere che egli ritorni, per poter rendergli i dovuti onori dopo il ritorno e la valorosa vincita sotto le mura di Troia. Atena in questo caso risulta essere una divinità risolutrice e rassicuratrice: aiuta Telemaco a fronteggiare i Proci e lo assicura della sorte del padre. Inoltre dona requie alla povera Penelope donandole un sonno tranquillizzante, tipica di Omero è la clausula del sonno che "cade sulle palpebre", si veda ad esempio Od. V 271-272.

mercoledì 4 novembre 2009

Tolleranza e relatività del costume e della morale nel mondo antico.

Tolleranza e relatività del costume e della morale nel mondo antico.
Con il termine tolleranza si indica la capacità di accettare i comportamenti, i pensieri, le credenze e i modi di vivere delle persone che vivono al di fuori della nostra società. In questo periodo si parla molto di tolleranza e di intolleranza, dunque, potrebbe essere utile dare uno sguardo al mondo classico. Gli ambiti in cui si sono manifestati atti di intolleranza e si manifestano sono molteplici: dalla politica estera ( guerre espansionistiche, colonialismo) ai rapporti interni alla società civile ( emarginazione degli stranieri, delle minoranze, schiavitù) e ai rapporti privati ( subordinazione della donna e pregiudizi nei confronti dei diversi). Gli antichi furono intolleranti soprattutto a livello religioso ed etnico. Vigeva dunque un atteggiamento etnocentrico in base al quale ogni comportamento estraneo al mos maiorum era guardato con diffidenza e condannato. Il mondo antico fu meno tollerante di quanto si possa credere. Già l’idea di barbaro fu coniata dai greci e denota gli stranieri che non erano in grado di parlare la lingua greca e quindi balbettano: la parola implicò subito un’inferiorità morale e razziale. I romani furono leggermente più aperti verso le altre genti, a patto che non s’opponessero all’assimilazione da parte di Roma. Il termine barbarus è entrato nel mondo latino con la stessa accezione negativa, i romani entrarono a contatto con popolazioni tanto lontane dalla loro mentalità, da indurre perfino a dubitare di avere a che fare con esseri umani ( si legga il capitolo finale della Germania di Tacito). In Grecia, nell’ambito della sofistica, vi furono posizioni improntate su un “relativismo culturale”, cioè vi era il riconoscimento della disparità dei valori che presiedono alla diverse civiltà, che potremmo definire in termini moderni “ illuministico”. Anche Erodoto, che ebbe contatti con l’ambiente sofistico, condivise tale indirizzo illuministico. Passando dal mondo greco a quello latino, anche Cornelio Nepote nella prefazione al De viris illustribus, nel legittimare e quasi giustificare la varietà dei comportamenti dei famosi uomini greci, afferma una sorta di relativismo culturale e morale. Lo storico romano sostiene che i vari costumi di un popolo non debbano essere giudicati dal punto di vista dell’osservatore, ma sulla base di criteri interni al popolo stesso. Ancora oggi non siamo capaci di estraniarci dal nostro contesto sociale e culturale, ma tendiamo, odiosamente, a giudicare come sconvenienti comportamenti di altre popolazioni che a noi appaiono estranei. L’abitudine ci porta a operare tale discriminazione tra le nostre usanze e quelle del vicino e come si sa molte volte queste incongruenze nel modo di vedere il mondo sfociano in cruenti e duraturi conflitti. E’, comunque, difficile operare un distacco dalla realtà sociale che viviamo, tale problema è al centro di tantissime e recenti ricerche sociologiche. Cornelio Nepote cerca di dare una soluzione a tale problema e afferma che il parametro per giudicare gli usi e i costumi di un dato popolo sono da rintracciare nelle tradizioni che regolano il comportamento comune. Di fianco a tali dichiarazioni, nel mondo romano, assistiamo a un antisemitismo. Non vorrei passare a conclusioni affrettate e questa sede appare la meno idonea per trattare tale delicato argomento, l’antisemitismo latino è molto diverso rispetto all’antisemitismo nazista. I latini nutrivano profondi pregiudizi verso gli ebrei. Cicerone (Pro Flacco 67) li attacca per quanto riguarda l’influenza delle pubbliche adunanze. Giovenale e Orazio pongono l’accento sulle singole usanze ebraiche, comunque, non vi è odio razziale, ma solo ironia. La più grande sintesi delle odiose vedute antisemite dei romani sono contenute nel libro quinto delle Historiae di Tacito. La testimonianza di Tacito dimostra che a Roma vi era il timore che una popolazione estranea potesse danneggiare il costume degli avi e quindi minare le fondamenta della società romana. Ma il comportamento antisemita è continuato anche in epoca tardo antica, ciò è testimoniato dalle parole di Rutilio Namaziano nel suo poemetto De reditu suo (I 383-398) in cui odiosamente esprime atteggiamenti intolleranti largamente condivisi. Rutilio Namaziano, ha comportamenti intolleranti anche verso gli stessi cristiani (sono famose le invettive contro i monaci della Capraia e di Gorgona). Nell’epoca della decadenza di Roma Quinto Aurelio Simmaco ci offre una particolare lezione: egli si fece portatore di una concezione ispirata al pluralismo e alla tolleranza religiosa che egli riassunse nelle parole. « Dobbiamo riconoscere che tutti i culti hanno un unico fondamento. Tutti contemplano le stesse stelle, un solo cielo ci è comune, un solo universo ci circonda. Che importa se ognuno cerca la verità a suo modo? Non si può seguire una sola strada per raggiungere un mistero così grande. »*. (Quinto Aurelio Simmaco, Relatio de ara Victoriae)

*Aequum est quicquid omnes colunt unum putari. Eadem spectamus astra, commune caelum est, idem nos mundus involvit; quid interest qua quisque prudentia verum requirat? Uno itinere non potest perveniri ad tam grande secretum.