lunedì 9 novembre 2009

Antologia Siciliana. "Guiderdone aspetto avere" Giacomo da Lentini.

Metro: canzone di quattro coblas singulars secondo lo schema: aab, ccb, ded(e)f, ghg(h)f. Collegamento a coblas capfinidas tra le strofi II e III , possibile (lontano ma percepibile) collegamento di disperanza tra la prima e la seconda coblas ( 7//15). Rime siciliane: 1 avere, 2 servire, 25 ride, 27 vede, 43 perisca, 44 'incresca.

Guiderdone aspetto avere
da voi, donna, cui servire
no m’enoia;
ancor che mi siate altera
5sempre spero avere intera
d’amor gioia.
Non vivo in disperanza,
ancor che mi disfidi
la vostra disdegnanza:
10ca spesse volte vidi, – ed è provato,
omo di poco affare
pervenire in gran loco;
se lo sape avanzare,
moltipricar lo poco – c’à ’quistato.

15 In disperanza no mi getto,
ch’io medesmo mi ’mprometto
d’aver bene:
di bon core la lëanza
ch’i’ vi porto, e la speranza
20mi mantene.
Però no mi scoraggio
d’Amor che m’à distretto;
sì com’omo salvaggio
faraggio, com’è detto – ch’ello face:
25per lo reo tempo ride,
sperando che poi pera
lo laido aire che vede;
da donna troppo fera – spero pace.

S’io pur spero in allegranza,
30fina donna, pïetanza
in voi si mova.
Fina donna, no mi siate
fera, poi tanta bieltate
in voi si trova:
35ca donna c’à bellezze
ed è senza pietade,
com’omo [è] c’à richezze
ed usa scarsitade – di ciò c’ave;
se non è bene apreso,
40nodruto ed insegnato,
da ogn’omo ’nd’è ripreso,
orruto e dispregiato – e posto a grave.

Donna mia, ch’eo non perisca:
s’eo vi prego, no vi ’ncresca
45mia preghera.
Le bellezze che ’n voi pare
mi distringe, e lo sguardare
de la cera;
la figura piacente
50lo core mi diranca:
quando voi tegno mente
lo spirito mi manca – e torna in ghiaccio.
Né-mica mi spaventa
l’amoroso volere
55di ciò che m’atalenta,
ch’eo no lo posso avere, – und’eo mi sfaccio.
(Giacomo da Lentini, I poeti della scuola Siciliana, vol. 1 a cura di R. Antonelli)

Nella canzone notiamo una forte mescolanza di metri (ottonari, settenari, quadrisillabi, endecasillabi a rima interna formati da un quadrisillabo e da un settenario), tale forma verrà proggressivamente ridotta nella lirica sicilian, fino, poi, all'abolizione con la teorizzazione dantesca dell'eccellenza della combinazione di settenario ed endecasillabo. Tale disponiblità prosodica è unica nel panorama lentiniano e quasi dichiara l'importanza della tematica affrontata: la ricompensa d'amore, nodo centrale della lirica in lingua d'oc. Giacomo richiede la ricompensa d'amore, ma con pessimismo si rende conto del fellimento della sua azione e della riduzione di se stesso ad essere inanimato. Non è possibile portare a compimento il proprio amore, se non in casi eccezionali. Questa canzone ha poi avuto un'importanza particolare per i successivi poeti, che ne ripresero singoli motivi e spunti tematici.
Il guiderdone è la ricompensa d'amore, è un termine ripreso dai rimatori provenzali, ad esempio Folchetto da Marsiglia: Amors merce. Inoltre possiamo individuare molte parole chiave della lirica cortese: enoia, nella tradizione trobadorica è attestata la serie noia e gioia. Alcuni manscritti riportano, come lectio facilior noia a posto di enoia. Ma da notare anche la tipica rima siciliana avere : servire (aviri : serviri) che mette in risalto il secondo termine chiava della lirica che sarebbe il servizio d'amore.

venerdì 6 novembre 2009

La donna abbandonata dal mondo classico a quello romanzo I



La donna in attesa: Penelope.
La tradizione letteraria ci tramanda la figura di Penelope, come modello di perfetta moglie che riesce a resistere alla lunga lontananza del marito. Ella ha un contegno coraggioso dinnanzi ai Proci, ma si sente abbandonata, così da lasciarsi in balia della speranza e della disperazione. Essi tentano di impadronirsi della casa e sposare Penelope, a questi pretendenti, che banchettano per anni nella dimora di Odisseo, impegnato valorosamente nella guerra, si oppongono le volontà di Telemaco e della stessa Penelope. Così parla Telemaco, ignaro di rivolgersi ad Atena (Od. I 247-251):

"...τόσσοι μητέρ' ἐμὴν μνῶνται, τρύχουσι δὲ οἶκον.
ἡ δ' οὔτ' ἀρνεῖται στυγερὸν γάμον οὔτε τελευτὴν
ποιῆσαι δύναται· τοὶ δὲ φθινύθουσιν ἔδοντες
οἶκον ἐμόν· τάχα δή με διαῤῥαίσουσι καὶ αὐτόν."

Tanti aspirano alle nozze di mia madre e distruggono la casa.
Ella non nega l'odiosa proposta di matrimonio, né può trovare
una soluzione, essi intanto banchettano e mandano la casa
in rovina e sbraneranno, certo, tra poco anche me.

La situazione è difficile, Penelope non capisce la drammaticità della situazione e si trova incerta dinnanzi al dubbio di una situazione incerta, alle pressioni di uomini violenti e vogliosi. Ad essa rimane solo il ricordo del marito partito per la guerra. I Proci spodestano l'eroe Odisseo, non hanno rispetto per la sacralità della casa e trascorrono giornate oziose in banchetti. Dunque a cosa si deve dedicare la moglie durante l'assenza del marito e questo diventerà un topos della letteratura dell'abbandono, la moglie deve attendere ai lavori domestici e attendere con pazienza, piangendo nell'intimo della propria stanza. Così risponde Telemaco a Penelope. (Od. I 356-364)

"...ἀλλ' εἰς οἶκον ἰοῦσα τὰ σ' αὐτῆς ἔργα κόμιζε,
ἱστόν τ' ἠλακάτην τε, καὶ ἀμφιπόλοισι κέλευε
ἔργον ἐποίχεσθαι· μῦθος δ' ἄνδρεσσι μελήσει
πᾶσι, μάλιστα δ' ἐμοί· τοῦ γὰρ κράτος ἔστ' ἐνὶ οἴκῳ."
ἡ μὲν θαμβήσασα πάλιν οἶκόνδε βεβήκει·
παιδὸς γὰρ μῦθον πεπνυμένον ἔνθετο θυμῷ.
ἐς δ' ὑπερῷ' ἀναβᾶσα σὺν ἀμφιπόλοισι γυναιξὶ
κλαῖεν ἔπειτ' Ὀδυσῆα, φίλον πόσιν, ὄφρα οἱ ὕπνον
ἡδὺν ἐπὶ βλεφάροισι βάλε γλαυκῶπις Ἀθήνη."

"...Ma tu ora rientra nelle stanze, preoccupati dei tuoi lavori
la tela e la lana, ed esorta le ancelle
che attendano al lavoro. Tutti i pubblici discorsi appartengono agli uomini,
specialmente a me, poiché è mio il potere nella casa."
La madre stupita tornò indietro nelle stanze
e accolse nell'animo il discorso del figlio ispirato dalla saggezza,
salì di sopra accompagnata dalle ancelle,
pianse Odisseo, suo caro sposo, finché Atena
dallo sguardo fulgido, le infuse sulle palpebre un dolce sonno.

Vengono qui menzionati da Telemaco i lavori tipici delle donne, ai quali debbono attendere mentre il talamo nuziale è vuoto ἱστόν τ' ἠλακάτην, sono la tela e la lana, che si potrebbero tradurre per translato: il fuso e il telaio. Vediamo come nei testi porti alla lettura vi sia il continuo riferimento all' οἶκος, alla casa. Alla moglie spettava il mantenimento delle mura domestiche mentre il marito si allontanava da esse. Nel caso specifico dell'Odissea questi lavori domestici divengono il pretesto dell'inganno, che Penelope, donna dotata d'intelligenza, ordisce nei confronti dei proci, che invadono la sua casa e tentano di usurpare il trono del caro marito, che viene compianto privatamente. Il dolore, ma anche la speranza la portano ad attendere che egli ritorni, per poter rendergli i dovuti onori dopo il ritorno e la valorosa vincita sotto le mura di Troia. Atena in questo caso risulta essere una divinità risolutrice e rassicuratrice: aiuta Telemaco a fronteggiare i Proci e lo assicura della sorte del padre. Inoltre dona requie alla povera Penelope donandole un sonno tranquillizzante, tipica di Omero è la clausula del sonno che "cade sulle palpebre", si veda ad esempio Od. V 271-272.

mercoledì 4 novembre 2009

Tolleranza e relatività del costume e della morale nel mondo antico.

Tolleranza e relatività del costume e della morale nel mondo antico.
Con il termine tolleranza si indica la capacità di accettare i comportamenti, i pensieri, le credenze e i modi di vivere delle persone che vivono al di fuori della nostra società. In questo periodo si parla molto di tolleranza e di intolleranza, dunque, potrebbe essere utile dare uno sguardo al mondo classico. Gli ambiti in cui si sono manifestati atti di intolleranza e si manifestano sono molteplici: dalla politica estera ( guerre espansionistiche, colonialismo) ai rapporti interni alla società civile ( emarginazione degli stranieri, delle minoranze, schiavitù) e ai rapporti privati ( subordinazione della donna e pregiudizi nei confronti dei diversi). Gli antichi furono intolleranti soprattutto a livello religioso ed etnico. Vigeva dunque un atteggiamento etnocentrico in base al quale ogni comportamento estraneo al mos maiorum era guardato con diffidenza e condannato. Il mondo antico fu meno tollerante di quanto si possa credere. Già l’idea di barbaro fu coniata dai greci e denota gli stranieri che non erano in grado di parlare la lingua greca e quindi balbettano: la parola implicò subito un’inferiorità morale e razziale. I romani furono leggermente più aperti verso le altre genti, a patto che non s’opponessero all’assimilazione da parte di Roma. Il termine barbarus è entrato nel mondo latino con la stessa accezione negativa, i romani entrarono a contatto con popolazioni tanto lontane dalla loro mentalità, da indurre perfino a dubitare di avere a che fare con esseri umani ( si legga il capitolo finale della Germania di Tacito). In Grecia, nell’ambito della sofistica, vi furono posizioni improntate su un “relativismo culturale”, cioè vi era il riconoscimento della disparità dei valori che presiedono alla diverse civiltà, che potremmo definire in termini moderni “ illuministico”. Anche Erodoto, che ebbe contatti con l’ambiente sofistico, condivise tale indirizzo illuministico. Passando dal mondo greco a quello latino, anche Cornelio Nepote nella prefazione al De viris illustribus, nel legittimare e quasi giustificare la varietà dei comportamenti dei famosi uomini greci, afferma una sorta di relativismo culturale e morale. Lo storico romano sostiene che i vari costumi di un popolo non debbano essere giudicati dal punto di vista dell’osservatore, ma sulla base di criteri interni al popolo stesso. Ancora oggi non siamo capaci di estraniarci dal nostro contesto sociale e culturale, ma tendiamo, odiosamente, a giudicare come sconvenienti comportamenti di altre popolazioni che a noi appaiono estranei. L’abitudine ci porta a operare tale discriminazione tra le nostre usanze e quelle del vicino e come si sa molte volte queste incongruenze nel modo di vedere il mondo sfociano in cruenti e duraturi conflitti. E’, comunque, difficile operare un distacco dalla realtà sociale che viviamo, tale problema è al centro di tantissime e recenti ricerche sociologiche. Cornelio Nepote cerca di dare una soluzione a tale problema e afferma che il parametro per giudicare gli usi e i costumi di un dato popolo sono da rintracciare nelle tradizioni che regolano il comportamento comune. Di fianco a tali dichiarazioni, nel mondo romano, assistiamo a un antisemitismo. Non vorrei passare a conclusioni affrettate e questa sede appare la meno idonea per trattare tale delicato argomento, l’antisemitismo latino è molto diverso rispetto all’antisemitismo nazista. I latini nutrivano profondi pregiudizi verso gli ebrei. Cicerone (Pro Flacco 67) li attacca per quanto riguarda l’influenza delle pubbliche adunanze. Giovenale e Orazio pongono l’accento sulle singole usanze ebraiche, comunque, non vi è odio razziale, ma solo ironia. La più grande sintesi delle odiose vedute antisemite dei romani sono contenute nel libro quinto delle Historiae di Tacito. La testimonianza di Tacito dimostra che a Roma vi era il timore che una popolazione estranea potesse danneggiare il costume degli avi e quindi minare le fondamenta della società romana. Ma il comportamento antisemita è continuato anche in epoca tardo antica, ciò è testimoniato dalle parole di Rutilio Namaziano nel suo poemetto De reditu suo (I 383-398) in cui odiosamente esprime atteggiamenti intolleranti largamente condivisi. Rutilio Namaziano, ha comportamenti intolleranti anche verso gli stessi cristiani (sono famose le invettive contro i monaci della Capraia e di Gorgona). Nell’epoca della decadenza di Roma Quinto Aurelio Simmaco ci offre una particolare lezione: egli si fece portatore di una concezione ispirata al pluralismo e alla tolleranza religiosa che egli riassunse nelle parole. « Dobbiamo riconoscere che tutti i culti hanno un unico fondamento. Tutti contemplano le stesse stelle, un solo cielo ci è comune, un solo universo ci circonda. Che importa se ognuno cerca la verità a suo modo? Non si può seguire una sola strada per raggiungere un mistero così grande. »*. (Quinto Aurelio Simmaco, Relatio de ara Victoriae)

*Aequum est quicquid omnes colunt unum putari. Eadem spectamus astra, commune caelum est, idem nos mundus involvit; quid interest qua quisque prudentia verum requirat? Uno itinere non potest perveniri ad tam grande secretum.

mercoledì 28 ottobre 2009

Montale Sarcofaghi

Dove se ne vanno le ricciute donzelle
che recano le colme anfore su le spalle
ed hanno il fermo passo sì leggero;
e in fondo uno sbocco di valle
invano attende le belle
cui adombra una pergola di vigna
e i grappoli ne pendono oscillando.
il sole che va in alto, le intraviste pendici
non han tinte: nel blando
minuto la natura fulminata
atteggia le felici
sue creature, madre non matrigna,
in levità di forme.
Mondo che dorme o mondo che si gloria
d’immutata esistenza, chi può dire?,
uomo che passi, e tu dagli
il meglio ramicello del tuo orto.
Poi segui: in questa valle
non è vicenda di buio e di luce.
Lungi di qui la tua via ti conduce,
non c’è asilo per te, sei troppo morto:
seguita il giro delle tue stelle.
E dunque addio, infanti ricciutelle,
portate le colme anfore su le spalle.

martedì 27 ottobre 2009

informazione di servizio.

Il commento al mito di Orfeo è abbinato al testo ovidiano tradotto...

lunedì 26 ottobre 2009

Can vei la lauzeta mover

*Da un lavoro per un forum
Can vei la lauzeta mover
de joi sas alas contra·l rai,
que s'oblida e·s laissa chazer
per la doussor c'al cor li vai,
ai! tan grans enveya m'en ve
de cui qu'eu veya jauzion!
Meravilhas ai, car desse
lo cor de dezirer no·m fon.
Ai, las! tan cuidava saber
d'amor, e tan petit en sai,
car eu d'amar no·m posc tener
celeis don ja pro non aurai.
Tout m'a mo cor, e tout m'a me,
e se mezeis e tot lo mon;
e can se·m tolc, no·m laisset re
mas dezirer e cor volon.
Anc non agui de me poder
ni no fui meus de l'or'en sai
que·m laisset en sos olhs vezer
en un miralh que mout me plai.
Miralhs, pus me mirei en te,
m'an mort li sospir de preon,
c'aissi·m perdei com perdet se
lo bels Narcisus en la fon.
De las domnas me dezesper;
ja mais en lor no·m fiarai;
c'aissi com las solh chaptener,
enaissi las deschaptenrai.
Pois vei c'una pro no m'en te
vas leis que·m destrui e'm cofon,
totas las dopt'e las mescre,
car be sai c'atretals se son.
D'aisso.s fa be femna parer
ma domna, per qu'e·lh o retrai,
car no vol so c'om deu voler,
e so c'om li deveda, fai.
Chazutz sui en mala merce,
et ai be faih co·l fols en pon;
e no sai per que m'esdeve,
mas car trop puyei contra mon.
Merces es perduda, per ver
(et eu non o saubi anc mai!),
car cilh qui plus en degr'aveI,
no·n a ges; et on la querrai?
A! can mal sembla, qui la ve,
qued aquest chaitiu deziron
que ja ses leis non aura be,
laisse morir, que no l'aon!
Pus ab midons no·m pot valer
precs ni merces ni·l dreihz qu'eu ai,
ni a leis no ven a plazer
qu'eu l'am, ja mais no·lh o dirai.
Aissi·m part de leis e·m recre;
mort m'a, e per mort li respon,
e vau m'en, pus ilh no·m rete,
chaitius, en issilh, no sai on.






Tristans, ges no·n auretz de me,
qu'eu m'en vau, chaitius, no sai on.
De chantar me gic e·m recre,
e de joi e d'amor m'escon.



Quando vedo la lodoletta battere
di gioia le sue ali contro i raggi del sole
che s'oblia e si lascia cadere
per la dolcezza che le va al cuore
ah tanto grande invidia me ne viene
di chiunque veda gioioso,
che subito ho meraviglia
e il cuore da desiderio non mi si strugge.

Ahi, me infelice tanto credevo di sapere
d'amore e tanto poco ne so.
Perché io non posso trattenermi dall'amare
colei da cui mai otterrò nessun vantaggio.
Tolto mi ha il cuore, tolto m'ha me stesso,
e a sé stessa m'ha tolto, e tutto il mondo:
e quando mi si tolse, nulla mi lasciò
tranne un desiderio e il cuore voglioso.

Mai non ebbi il dominio di me stesso
e da allora in qua non fui più mio,
da quando mi lasciò mirare i suoi occhi
in uno specchio che molto mi piace.
Specchio, dopo che mi rispecchiai in te,
mi hanno ucciso i sospiri che giungono dal profondo
che così mi persi (sott. nei tuoi occhi) come si perse
il bel Narciso nella fonte.

Non ho più speranza in nessuna donna
e mai più mi fiderò di loro
che così come sono solito elogiarle
nello stesso modo toglierò le mie lodi.
Poiché vedo che nessuna mi vine in aiuto
contro di lei che mi distrugge e mi confonde,
tutte e le temo, e allo stesso tempo, non credo più in loro
che so bene che tutte sono fatte allo stesso modo.

Si rivela una donna qualunque
la mia signora, perciò io la rimprovero
perché non vuole ciò che un uomo deve volere
e fa fa ciò che le si vieta.
Sono caduto in mala grazia
e faccio come lo stolto sul ponte*
e non so perché ciò avvenga
se non che io volli salire troppo in alto.
(*il folle che sale su un ponte senza scendere dal cavallo rischia di cadere)

Mercé è veramente caduta
ed io mai la conobbi!
Perché colei che più ne dovrebbe avere
non ne ha affatto, e dove vado a cercarla?
Ah quanto male sembra se uno la vede
in questo infelice smanioso,
che mai senza lei avrà bene
lasci morire senza aiutarlo?

Poiché presso la mia signora
non può valere né preghiera né grazia né il diritto che ho io
a lei non viene a piacere
ch'io la ami, e giammai glielo dirò.
Così mi separo da lei, e mi ricredo:
mi ha ucciso e in quanto morto non le rispondo,
me ne vado, poiché ella non mi trattiene,
infelice in esilio non so dove.

Tristano*, nulla saprete di me,
me ne vado infelice non so dove
smetto di cantare e i rinnego il mio canto
e mi nascondo dalla gioia e dall'amore.
(*QUI allude a Raimbaut d'Aurenga che in una sua canzone istruiva un parallelismo tra sé e Tristano)

La traduzione per molti pezzi è mia, per le parti di difficile interpretazione ho fatto uso di varie traduzioni e ho scelto quella, che in base a quel poco che riuscivo a capire, mi sembrava migliore.

Un commento al mito di Orfeo ed Euridice

COMMENTO
Alla notissima, affascinante e triste storia di Orfeo ed Euridice Ovidio dedica due inizi di libro: il decimo e l’undicesimo. Viene raccontata la morte della sposa, la discesa del cantore negli inferi, il canto che convince il re e la regina dell’Ade a restituire Euridice, alla condizione che egli non la guardi finché non saranno fuori dal mondo sotterraneo, Orfeo non riesce a resistere e si volta a guardare l’amata, così la perse definitivamente. Poi il suo dolore inguaribile gli impedisce di congiungersi ad altre donne, fino che venne ucciso dalle Baccanti e la sua testa fluttuò fino all’isola di Lesbo, dove, poi, storicamente si svilupperà la poesia lirica greca. Per commentare i miri delle Metamorofosi ovidiane è basilare considerare la commistione e l'intreccio di generi presente nei vari momenti della narrazione mitica. Da un'attenta lettura delle storie raccontate da Ovidio notiamo che generi diversi, che in passato venivano tra loro distanziati, vengano uniti assieme. Ai tre generi, per chiamarli con un termine moderno, corrispondono tre stili: quello tragico, aulico, delle scene piene di pathos, quello elegiaco, medio, "comico" (in una dicitura medievale) e quello bucolico. Come si è detto, nella tradizione letteraria i tre stili venivano distanziati e a loro erano dedicate opere di argomento e genere diversi. Ovidio oper un'innovazione profondissima, che "spezza" i vincoli rigidi della retorica classica: in un'unica opera unisce i tre stili. Sarà bello notare che egli utilizza il poema epico, utilizzato per cantare argomenti tragici, aulici, la sua opera principale sta al di sopra di ogni poetica, Ovidio vuole superare ogni limite e vincolo imposto da regole fisse: utilizza il metro dell'epos, ma il modello principale è il poema didascalico alessandrino. E' interessante notare come il nostro autore giochi con la letteratura: unisce alla poetica di ispirazione alessandrina, che rifuggiva l'epos, l'esametro e la forma del poema epico.
Non è facile definire con certezza quale genere letterario sia prevalente. Fin da subito propendiamo a considerare preponderante il genere letterario dell’elegia. Il tema principale dell’episodio è l’amore, che viene privato a causa di una morte accidentale e induce il poeta cantore Orfeo a discendere negli inferi pur di riavere con sé la sua amata. Ma non è un amore tipicamente elegiaco, l’amante non seduce e poi abbandona l’amato per sue ragioni, ma per cause esterne ad esso: la morte, appunto. L’amore che lega Orfeo ed Euridice è un amore coniugale, non una relazione fuori dai vincoli del matrimonio, come spesso era cantata nelle elegie. Tuttavia non vi è amarezza nel ricordo dell’amata, essa non è considerata perfida o infida, ma di lei, in Orfeo, vi è un dolce e malinconico ricordo. Anche il finale lieto del mito (XI vv 63-66) fa pensare un genere letterario non eccessivamente tragico:

“Invenit Eurydicen cupidisque amplectitur ulnis;
hic modo coniunctis spatiantur passibus ambo,
nunc praecedentem sequitur, nunc praevius anteit
Eurydicenque suam iam tuto respicit Orpheus.”

(Vi ritrova Euridice e l’abbraccia desideroso; qui ora congiunti camminano assieme , ora egli segue lei che precede, ora davanti a lei cammina, e ormai senza pensiero si volge Orfeo a guardare la sua Euridice). Ovidio sembra a tratti scherzare con la materia del suo mito. Così, ad esempio, le parole che Orfeo rivolge a Proserpina sembrano essere modellate in un’abile suasoria in cui egli non esita a ricordare agli dei la potenza dell’amore: (“vos quouqe iunxit amor” X 29) per indurli alla restituzione dell’amata. Proprio in questi versi (dal 25 al 29) si concentrano espressioni tipiche del genere elegiaco. Vi è continuo riferimento ad Amore, visto come un dio potente e spietato. L’amante ha voluto sopportare la mancanza della donna amata, ma il dolore ha fatto sì che l’ amore vincesse sul suo animo, spingendolo così a bussare alle porte degli inferi: amor vicit. Tale locuzione ci fa venire in mente la famosissima frase che Gallo recitò nella decima ecloga di Virgilio: “ omnia vincit amor et nos cedamus amori”( Ver. ecl. X 69). Ma, ancora, non vi è amarezza a invocare il nome di Amore, Orfeo si augura che anche negli inferi esso possa agire come fa sulla terra. Dal punto di vista della forma nel verso 26 è interessante notare un particolare: il poeta, nell’ Orco, indica la terra con le stesse parole colle quali i vivi indicano l’aria e il cielo sovrastanti (supera in ora ). All’inizio il nostro poeta ha fatto ricorso all’immagine di un dio: Imeneo (gr. Hyménaios). Egli era il dio degli sponsali e “imeneo” era il canto che a sera accompagnava la sposa a casa dello sposo (Cfr Lucrezio de rerum natura I 97 e Catullo 61). Tale figura potrebbe rimandare ad alcune scene elegiache. La figura di Orfeo è comunque malinconica e in tutta la vicenda si può ravvisare un’elevata tristezza. Tuttavia è scorretto iscrivere tutta la vicenda nei canoni del genere elegiaco: anche se non sono state lanciate maledizioni o non vi sono scene cruente, nel canto di Orfeo e nella narrazione del mito vi sono scene di grande pathos. Il mito si apre con la descrizione di cattivi presagi, infatti, nell’antichità si dava superstiziosamente molto peso ai segnali e ai sogni, nelle occasioni più importanti della vita. Ovidio riferendosi alla fiaccola di Imeneo dice che porterà lacrime, non gioia (“lacrimoso stridula fumo/ usque fuit ) vv 6-7. Ma è nel discorso che Orfeo rivolge a Proserpina e a suo marito che sono raggiunti grandi livelli di tensione emotiva. La preghiera è accorata e il suo fine è, appunto, quello di commuovere gli abitanti degli inferi per acconsentire la restituzione della moglie. Quella tra Orfeo ed Euridice è la storia di un amore profondo e risulterebbe riduttivo cantarlo attraverso il ricorso ad immagini elegiache. Sul finire della sua performance Orfeo innalza il livello del canto rendendolo commuovente e struggente: supplica i regnanti dell’Ade a rinnovare ad Euridice il destino della sua vita troppo presto troncata, l’uso dell’espressione retexite fata (v 31) fa venire in mente l’ufficio delle Parche. Successivamente, si delinea una riflessione sulla morte, dall’amore che vince tutto dei versi precedenti, si passa alla morte, comune destino di ogni essere umano. Orfeo è consapevole che la morte riprenderà la sua amata, ma vuole godere con lei gli anni della gioventù, quindi la chiede in prestito agli abitanti dell’Orco. Ovidio utilizza, infatti, un termine particolare mutuato dal linguaggio giuridico: usus. L’usus è l’usufrutto di cosa, la cui proprietà spetti ad un altro. L’Orco doveva riavere Euridice come proprietà quindi Orfeo non la chiede in dono ma prega soltanto di convivere con lei fino al giorno della sua morte naturale. Nel caso non gli fosse stato reso il suo amore Orfeo avrebbe adottato una soluzione estrema: la morte (“nolle redire mihi leto gaudente duorum” v 39). Il canto di Orfeo ha effetti sorprendenti: tutti gli abitanti degli inferi si fermano e piangono per il racconto del poeta cantore. Tantalo aveva sottratto l’ambrosia agli dei per cui era stato punito a soffrire la fame e la sete: si trovava nell’acqua accanto a un albero di frutti, ma non poteva né mangiare né bere. Issione, per essersi innamorato di Giunone, fu incatenato da Giove a una ruota infuocata che girava, Gli avvoltoi alludono alla condanna di Tizio. Le Belidi o Danaidi erano condannate a portare dell’acqua in delle brocche forate, Sisifo doveva portare verso l’altro un masso che poi dalla vetta rotolava subito giù. Si noti che i primi sono presentatati da Ovidio in terza persona, invece per l’ultimo utilizza l’apostrofe. Si bagnarono, persino, per la prima volta, le guance delle Erinni. Orfeo ottiene così il permesso di riprendersi l’amata e incomincia il cammino verso la terra. Ma, avido di vederla e insieme pauroso di averla persa guarda indietro e infrange il patto che strinse con al regina degli inferi. In questo punto vi è la descrizione della seconda morte di Euridice. Ella cerca di riafferrare l’amato, Ovidio sottolinea l’azione tramite un’abile figura etimologica utilizzando il verbo all’infinito presente di forma attiva e passiva (prendique et prendere certans v 58). Il nostro poeta descrive la perdita dell’amata con dovizia di particolare soffermandosi sul gesto delle braccia che non vanno ad abbracciare niente che l’aria. Allontanandosi sempre di più Euridice dà l’ultimo saluto allo sposo (“supremumque vale” ). L’autore, poi, sottolinea con un intervento diretto, sotto forma di domanda retorica, che si tratta di una storia drammatica, ma di intenso amore coniugale (“non est de coniuge quicquam /questa suo quid enim nisi se quereretur amatam?” vv60-61). Alla fine vi è una similitudine in cui Orfeo è paragonalo a delle persone trasformate in statue di pietra. In preda al dolore e alle lacrime, Orfeo rimane sette giorni alle porte dell’Ade, impossibilitato ad entrare. Egli non si nutre che della mestizia che ha in cor suo. Tutti questi sono elementi ascrivibili al genere tragico. Ma andando a leggere i versi successivi, nei quali si narra di Orfeo che ammalia le genti della terra col suo canto, siamo spettatori di un paesaggio tipicamente bucolico. Il poeta cantore trovandosi in una rada senz’ombra e incominciando a cantare, commosse la natura, e giunsero in gran fretta diversi alberi per proteggerlo dalla calura. Ovidio si sofferma molto sulla descrizione delle piante che ivi giungono. Nel tratteggiare quel sereno locus amoenus Ovidio fa riferimento alla metamorfosi di Attis.
La vicenda viene narrata da Ovidio, quindi vi è un narratore esterno. La narrazione a un certo punto si blocca per lasciar spazio al discorso diretto di Orfeo. Il narratore solo una volta interviene, come già detto, per sottolineare la drammaticità della storia. I personaggi non vengono descritti minuziosamente. Orfeo alla fine viene paragonato a una statua, Euridice non viene nemmeno abbozzata. Vi è però una descrizione leggermente più dettagliata degli abitanti dell’Averno, di loro sono descritte alcune peculiarità. Ciò non si potrebbe dire per quanto riguarda la descrizione del regno degli inferi, che viene tratteggiato con dovizia di particolari. Subito Orfeo dice ai vv 30 -31: “ Per ego haec loca plena timoris,/ per Chaos hoc ingens vastique silentia regni…”. Vi è a livello fonico l’allitterazione della s che dà una sensazione di durezza. Poi ai versi 53-54 è descritto il cammino che percorrono i due amanti per tornare sulla terra: “carpitur adclivis per muta silentia trames, / arduus, obscurus, caligine densus opaca, “. Il percorso è oscuro arduo, pieno di silenzio, e reso ancora più tenebroso da una fitta nebbia. Anche qui possiamo fare delle osservazioni a livello fonico, vi è l’allitterazione della u che conferisce al verso una certa cupezza. Inoltre l’enumerazione con il climax ascendente di aggettivi quasi sottolinea la spaventosa natura del luogo. L’inferno è definito dal poeta inamoenus. A tal proposito potrebbe essere interessante fare un’ analisi etimologica del termine Amoenus. Gli stessi filologi sono in dubbio se far risalire il termine al latino amare, amabilis, o al greco ameion, migliore. L’inferno è, dunque, un luogo dove si è impossibilitati ad amare e quindi si rende giustificabile l’intervento del poeta cantore. Il racconto del mito è dettagliato, la narrazione della vicenda di Orfeo che scende negli inferi è posta ai primi 77 versi del libro decimo, continua poi con una parentesi bucolica dove Orfeo viene consolato da diverse piante e lì incomincia a cantare diversi miti. La vicenda di Orfeo si chiude ai primi 66 versi del libro undecimo.
Il mito di Orfeo godette molta fortuna nella storia della letteratura e non solo. La prima testimonianza letteraria la sia ha nel Simposio di Platone ( 179 D.) secondo cui gli Dei per punire la vitalità di Orfeo gli avevano mostrato solo un fantasma della sposa, senza intenzione di restituirgliela e infine lo avevano fatto uccidere dalle donne. Non sempre la morte del cantore era collegata direttamente con quella della sposa, secondo Eschilo, fu ucciso dalle Menadi perché sostenitore del culto apollineo opposto a quello dionisiaco; secondo Fanocle (fr. 1 Diehl), poeta alessandrino, sarebbe stato ucciso dalle donne perché era diventato misogino e cultore di amori maschili (cfr Ov Met X vv 83-85). Sempre in ambito greco il mito di Orfeo si interseca a quello di Giasone e gli Argonauti. Egli diviene un Argonauta e fu presentato per primo dall’autore cn queste parole: “Primo fra tutti voglio cantare Orfeo, che la musa Callìope, si racconta, partorì presso il monte Pimpleo, unita in amore con il trace Eagro. E dicono che l'armonia del suo canto ammaliasse le dure pietre dei monti e le correnti dei fiumi. E le querce selvagge - a ricordo di quel canto - ancora oggi sulla sponda di Zone in Tracia fioriscono in filari ordinati, perché un tempo, incantate dalla cetra, scesero dalla Pieria in lunghe file.“. E’ interessante, nelle Argonautiche, l’episodio in cui Orfeo cantando con la cetra si sovrappone al canto delle Sirene, tale particolare verrà poi ripreso da Seneca nella Medea, ma questo lo vedremo più avanti. Fu Virgilio nella chiusura delle Georgiche ( IV 453 527) ad immortalare il mito di Orfeo consegnandolo alla letteratura successiva. Per raccontare il mito Virgilio utilizza la tecnica tutta alessandrina dell’epilio ( l’antecedente più prossimo a Virgilio è il Carme 64 di Catullo). L’intero mito, nel quale la figura di Aristeo e di Orfeo si trovano unite, è introdotto nella forma dell’ aiton, per spiegare l’origine di un fenomeno. Virgilio narra che il pastore Aristeo, il cui sciame era stato devastato da una moria, disperato rivolse alla madre, la ninfa Cirene, che a sua volta lo mando nel mare dall’indovino Proteo. Il legame dell’epilio etiologico con la materia didascalica del poema appare tenue. Più verosimilmente l’epilio ha un significato preciso nella struttura del poema: forse funge da sintesi del senso complessivo dell’opera. Su questa linea si pone il filologo Gian Biagio Conte: Orfeo rappresenterebbe un modello esistenziale “contemplativo” legato al canto e all’amore, ormai superato da Virgilio a vantaggio del modello “pratico” rappresentato da Aristeo. La narrazione virgiliana assume una drammaticità intensa, soprattutto nei vv 485 503, che qui citeremo e osserveremo.

“Iamque pedem referens casus evaserat omnes;
redditaque Eurydice superas veniebat ad auras,
pone sequens, namque hanc dederat Proserpina legem,
cum subita incautum dementia cepit amantem,
ignoscenda quidem, scirent si ignoscere manes.
Restitit Eurydicenque suam iam luce sub ipsa
immemor heu! victusque animi respexit. Ibi omnis
effusus labor atque immitis rupta tyranni
foedera, terque fragor stagnis auditus Avernis.
Illa, Quis et me, inquit, miseram et te perdidit, Orpheu,
quis tantus furor? En iterum crudelia retro
Fata vocant, conditque natantia lumina somnus.
Iamque vale: feror ingenti circumdata nocte
invalidasque tibi tendens, heu non tua, palmas!
dixit et ex oculis subito, ceu fumus in auras
commixtus tenues, fugit diversa, neque illum,
prensantem nequiquam umbras et multa volentem
dicere, praeterea vidit, nec portitor Orci
amplius obiectam passus transire paludem.”

Segnalato dal cum inversum al verso 48 si consuma il dramma che segna il momento della massima tensione narrativa: Orfeo colto da incauta dementia si volge indietro e infrange il divieto di Proserpina, Euridice dopo poche parole ddi addiosvanisce ceu fumus in auras (499). Il ritmo della narrazione divine più dattilico, nel descrivere la fuga degli amanti; poi la narrazione rallenta nel momento dell’effrazione fatale di Orfeo (vv490 491) attraverso i verbi allitterati restitit e respexit. Particolarmente patetico è il discorso di Euridice, che culmina nell’ossimoro marcato dall’allitterazione nel verso 498, che prelude allo svanire della ninfa. Rispetto ad Ovidio in virigilio vi è più dovizia dei particolari nel descrivere la personalità di Orfeo: ai suoi occhi il cantore è certamente colpevole, ma degno di compassione. Nel momento centrale della vicenda, nel quale si volge a vedere l’amata il poeta condanna la sua dementia, la follai amorosa, che lo rende incautum, dalla’altra però, è perdonabile ignoscenda. Tuttavia di fronte alla forza delle leggi infere Orfeo è destinato a soccombere e al poeta resta solo il registro elegiaco per accompagnare lo sventurato Orfeo fino alla morte. Virgilio nella descrizione delle anime indugia sui particolari, sottolinea la loro inconsistenza anche con delle metafore. Ma manca a differenza di Ovidio, la lunga perorazione di Orfeo. In Virgilio, però, viene abbozzata la figura di Euridice, alla quale il poeta concede un dialogo. L’Euridice di Virgilio è tipicamente elegiaca e malinconica, fa quasi venire in mente un’Eroina delle Heroides. Bellissime sono le parole con le quali Virgilio descrive la sparizione di Euridice vv 499-500. Ad un personaggio interno alla compagine narrativa delle Argonautiche, Orfeo, il mitico inventore della poesia,7 Valerio Flacco affida il compito di ripercorrere le peregrinazioni di Io,mutata in giovenca per non subire l’ira di Giunone in attesa di essere ritrasformata in ninfa prima dell’apoteosi celeste (Arg. 4, 344-422). Nelle numerose rivisitazioni letterarie della saga di Giasone e compagni, intercorse fra Apollonio Rodio e Valerio Flacco, per noi è questo il primo caso in cui Orfeo si occupi del personaggio di Io. Nel poema ellenistico, ad esempio, questi allevia spesso col canto i travagli dell’equipaggio, senza mai affrontare la vicenda di Inaco e della figlia così come, d’altronde, avverrà nei senecani Hercules furens, Medea nonché nell’Hercules Oetaeus, dove il nostro personaggio compare più volte nei panni di cantore di altri miti.Come già detto al figura di Orfeo è presente anche in Seneca nella Medea (vv. 355-360):
“Quid cum Ausonium dirae pestes
voce canora mare mulcerent,
cum Pieria resonans cithara
Thracius Orpheus solitam cantu
retinere rates paene coegit
Sirena sequi? ”
Comunque, anche Ovidio, fa cantare diversi miti ad Orfeo nel corso del decimo libro delle Metamorfosi, come nelle Argonautiche di Apollonio Rodio.
Ma il mito di Orfeo godette di una grandissima fortuna soprattutto in ambito volgare. In età umanistica attorno al 1480 Angelo Poliziano compone la Fabula d’ Orfeo che risulta essere il primo testo teatrale di argomento profano della nostra letteratura. Orfeo vi appare come simbolo della poesia, di cui viene esaltata la potenza, ma allo stesso tempo sottolineata la fragilità, sempre insidiata dalle forze irrazionali dell’istinto e delle passioni di cui le Baccanti sono simbolo. Non a cao Poliziano scrisse, nella sua attività di filologo, un commento alle Georgiche. La scena finale è di estrema violenza”Euoè! Bacco, Bacco i’ti ringrazio! Per tutto ‘l bosco l’abbiamo stracciato, tal ch’ogni sterpo è del suo sangue sazio. L’abbiamo a membro a membro lacerato in molti pezzi con crudele strazio”. (vv 302 306). Orfeo non sopravvive allo strazio e il suo capo ridotto a trofeo diviene il simbolo della vittoria delle passioni sull’esile sogno umanistico di un’armoniosa arte apollinea. Ma il mito d’Orfeo fu anche l’oggetto della prima opera lirica: “L’Euridice” di Iacopo Peri. Ben più interessante è l’Orfeo di Monteverdi, inscenato presso il palazzo ducale di Mantova il 24 febbraio del 1607 in cui la musica è enfatica e violenta. Il libretto di Alessandro Striggio segue il testo di Poliziano con poche varianti, la più importante delle quali è costituita dal lieto fine, con l’ascesa in cielo di Orfeo, accompagnato da Apollo. La partitura d'orchestra include pezzi per cinque, sette o otto parti, nelle quali gli strumenti sono a volte citati (per esempio: «Questo ritornello fu suonato di dentro da un clavicembalo, duoi chitarroni e duoi violini piccoli alla francese») e monodie a una, due o tre voci con basso non cifrato, nonché cori a cinque voci con basso non cifrato.
Lo stile di canto utilizzato può essere distinto in recitativo, arioso e, nel caso delle arie, strofico. Ma anche Gluck, più di un secolo dopo, nel 1774 a Parigi, compone un’opera incentrata sul mito di Orfeo, che a differenza della prima è più pacata. A tal proposito elenchiamo tutte le edizioni musicali del mito di Orfeo.
Euridice - opera teatrale. Libretto di Ottavio Rinuccini e musica di Iacopo Peri (1600).
L'Orfeo - Opera lirica di Claudio Monteverdi (1607).
Orfeo dolente - Opera musicale di Domenico Belli (1616).
La morte di Orfeo - Tragicommedia pastorale di Stefano Landi (1619).
Orfeus und Euridice - Opera-ballo di Heinrich Schütz (1638).
Orfeo - Opera musicale di Luigi Rossi (1647).
Orfeo - Opera musicale di Jean-Baptiste Lully e Louis Lully (1690).
Orfeo ed Euridice - Opera musicale di Christoph Willibald Gluck (1762).
Orfeo ed Euridice - Ballo di Florian Johann Deller (1763).
Orfeo ed Euridice - Opera lirica di Johann Gottlieb Naumann (1786).
L'anima del filosofo ossia Orfeo ed Euridice - Opera musicale di Franz Joseph Haydn (1791).
Orpheus - Poema sinfonico di Franz Liszt (1853-54).
Orfeo all'inferno - Operetta di Jacques Offenbach (1858).
Orfeo - Mimodramma di Roger Ducasse (1913).
Orpheus und Eurydike - Opera lirica di Ernst Krenek (1926).
Orpheus - Balletto di Igor Stravinskij (1947).
Orfeu da Conceiçāo - Dramma musicale di Vinicius de Moraes (1947).
Orfeo 9 - Opera rock di Tito Schipa Jr. (1970).
Eridice Roberto Vecchioni (1993).
(Da wikipedia)
Orfeo a Fumetti - Opera da camera di Filippo del Corno (2001).
Ma il il mito di Orfeo ha affascinato anche autori moderni come Rainer Maria Rilke ( 1875-1926) autore di alcuni Sonetti ad Orfeo e del poemetto Orfeo-Euridice-Ermete. In esso Euridice appare irrimediabilmente segnata dalla morte e disperato risulta essere il tentativo di Orfeo di riportarla in vita. La poesia riproduce la regressione-fusione della donna verso la morte, ineluttabile ma intrisa di profonda e mistica dolcezza: “ La tanto amata. Ma ella veniva a mano di quel dio, dalle lunghe funebri bende il passo costretto, incerta molle e paziente. In sé racchiusa come alta speranza dimentica dell’uomo che avanza e del cammino che risale al mondo. Come un frutto di buio e di dolcezza ell’era colma della sua gran morte, morte sì nuova ch’ella si smarriva […] Sciolta era ormai come una lunga chioma, abbandonata come pioggia in terra, come provvista in cento parti sparta. Ell’era già radice”. Rilke, nei Sonetti ad Orfeo, risponde alla caducità, alla morte come dato ineluttabile dell'esistenza con un'accettazione totale dell'esistenza che richiama Nietzsche. Non a caso infatti i Sonetti sono dedicati a Orfeo, altro nome di Dioniso, il Dio che per Nietzsche rappresentava il simbolo del "sì alla vita", di chi accetta l'esistenza in toto, con il suo carico di dolore. La riflessione sulla morte domina anche la rilettura offerta da Cesare Pavese nel brano intitolato (ironicamente) l’inconsolabile nei Dialoghi con Leucò (1947). Orfeo dialogando con una Baccante rievoca la propria avventura negli inferi. Il tentativo che intende operare Pavese in quest’opera è quello della ricerca, o ancor meglio della riscoperta di quel sostrato culturale comune, irrinunciabile e costitutivo che è il mito. Un mito che, seppur storicamente proprio di un'epoca ormai tramontata (quella greca), ci appartiene ancora in maniera viscerale nella misura in cui sublima ed eternizza le angosce e le esperienze più intime dell’uomo, antico e moderno. Ogni racconto ha come interlocutori due personaggi presi dalla mitologia greca, (rivista attraverso l'etnologia, il pensiero di Freud e l'esistenzialismo), dei quali lo stesso Pavese ne definisce le componenti e le relazioni che si instaurano tra i vari temi. Qui abbiamo citato dei passi scelti dal sopraccitato dialogo: “E' andata così. Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre. Erano già lontani Cocito, lo Stige, la barca, i lamenti. S'intravvedeva sulle foglie il barlume del cielo. Mi sentivo alle spalle il fruscìo del suo passo. Ma io ero ancora laggiù e avevo addosso quel freddo. Pensavo che un giorno avrei dovuto tornarci, che ciò ch'è stato sarà ancora. Pensavo alla vita con lei, com'era prima; che un'altra volta sarebbe finita. Ciò ch'è stato sarà. Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi "Sia finita" e mi voltai. Euridice scomparve come si spegne una candela. Sentii soltanto un cigolìo, come d'un topo che si salva.” La catabasi di Orfeo è motivata dalla ricerca, non tanto dell’amata quanto del proprio passato e del senso della propria esistenza ( qui, forse, ci viene in mente il tema de La luna e i falò). “Orfeo: Tu dici che sei come un uomo. Sappi dunque che un uomo non sa che farsi della morte. L'Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore. Cercavo un passato che Euridice non sa. L'ho capito tra i morti mentre cantavo il mio canto. Ho visto le ombre irrigidirsi e guardar vuoto, i lamenti cessare, Persefòne nascondersi il volto, lo stesso tenebroso-impassibile, Ade, protendersi come un mortale e ascoltare. Ho capito che i morti non sono più nulla.
Bacca: Il dolore ti ha stravolto, Orfeo. Chi non rivorrebbe il passato? Euridice era quasi rinata.”
“Orfeo: Tutte le volte che s'invoca un dio si conosce la morte. E si scende nell'Ade a strappare qualcosa, a violare un destino. Non si vince la notte, e si perde la luce. Ci si dibatte come ossessi.”
Vediamo che il mito di Orfeo ed Euridice ha molte tangenze interessanti con il racconto di Italo Calvino: “ Senza Colori” in Cosmicomiche. Ci fu un tempo sulla Terra in cui non c’erano i colori, e a causa della luce ultravioletta la Terra era quasi spopolata: capitava di vagare per miglia e miglia in viaggi di molti mesi senza incontrare anima viva. Inoltre tutto era grigio, non esistevano suoni e la temperatura aveva un’altissima escursione. Un giorno però Qfwfq incontrò Ayl, una bellissima ragazza. O almeno così sembrava, perché si distingueva veramente poco. Iniziarono le conversazioni, ma erano decisamente vuote di argomenti poiché erano le prime sulla Terra. Ma se Qfwfq amava le cose lucenti e diverse dal solito opaco, ad Ayl piacevano solo le cose opache e monotone tipiche della Terra. In quel periodo Qfwfq si accorse anche che sulla Terra stava salendo a vista d’occhio una nebbiolina, che in poco tempo ricoprì tutto il pianeta. Un giorno avvenne il grande cambiamento: si aprì un enorme crepaccio nel terreno dal quale uscirono gas e acqua, e poi apparvero i colori. Ayl però, alla quale non piaceva più il mondo di adesso, si buttò nel crepaccio e si nascose sottoterra. Qfwfq andò a cercarla, e quando la trovò dovette faticare molto per convincerla a tornare in superficie, assicurandole che tutto era tornato come prima. Quando però Ayl si accorse dell’inganno si spaventò e si ributtò nel crepaccio, che in quel momento si richiuse. Qfwfq non rivide più Ayl, che restò per sempre nelle viscere della Terra.
Dino Buzzati trasse ispirazione al mito in Poema a fumetti.
In chiusura a questo lavoro vorrei citare le versioni cinematografiche del mito di Orfeo:
Orfeo negro , di Marcel Camus; dal dramma di Vinicius de Moraes.
Le sang d'un poète, mediometraggio (1930), di Jean Cocteau
Orfeo (Orphée) (1949), di Jean Cocteau
Le Testament d'Orphée, ou ne me demandez pas pourquoi! (1960), di Jean Cocteau

martedì 15 settembre 2009

Filologia piccola parentesi sulla storia e il metodo.

Poiché non restano autografi di autori classici, per le nostre conoscenze di quello che essi scrissero dipendiamo da dei codici e da della edizioni a stampa, che un numero ignoto di anelli separa dagli originali. Tutti i testimoni hanno sofferto nei secoli per danni fisici, per la possibilità degli errori degli amanuensi, per gli effetti di un’interpolazione deliberata. Qualunque tentativo di ristabilire la forma originale richiede l’impiego di un procedimento lungo e difficile che si divide in più fasi. Accade più volte che in molti punti del testo due o più codici diversi rechino delle differenti lezioni o varianti testuali, tra cui non è sempre facile stabilire quale sia la più attendibile. La scienza che permette di compiere un restauro del testo originale, quindi di poter ricavare una versione del testo più vicina a quella dell’autore è la filologia (dal greco φιλολογία, composto da φίλος "amante, amico" e λόγος "parola, discorso": "amore per lo studio delle parole"). Il metodo della filologia, fondato dal Lachmann si avvale di due momenti principali: la recensio e l’emendatio.
Lo studio dei testi con la finaltà di conservarli o ripristinarli nella forma più vicina possibile all’originale cominciò già in epoca antica e più precisamente nel III secolo a.C. in ambiente greco, con degli studiosi attivi ad Alessandrai d’Egitto. Il primo grande filologo fu Aristofane da Bisanzio, bibliotecario della biblioteca di Alessandria (257 a.C. 180 a.C.) fissò la fine dell'Odissea al libro XXIII, riunì i dialoghi platonici e fece la prima edizione delle poesie di Pindaro, nonché adottò un sistema di simboli per indicare i versi spurii. Sempre tra i filologi alessandrini è degno di nota Aristarco di Samotracia (216 a.C. 144 a.C.) discepolo di Aristofane, fu uno tra i più grandi studiosi di Omero oltre ad Omero, commentò Anacreonte Archiloco Aristofane Erodoto Eschilo Ione e Pindaro e fu autore dei Συγγράμματα, brevi discussioni critiche delle opinioni di altri commentatori. In ambito romano ricordiamo: Lucio Elio Stilone Preconino, che affrontò il problema dell'attribuzione delle opere plautine fu maestro del filologo Varrone e di Cicerone. Andando avanti con gli anni incontriamo Elio Donato grandissimo grammatico commentatore di Terenzio e di Virgilio, egli utilizzò un metodo filologico i cui cardini sono costituiti dalla completezza e dalla brevitas, con il continuo riferimento alle sue fonti, senza escludere alcuni interventi personali. Poi Marziano Capella (IV V d.C.)c' è noto per il trattato didattico indirizzato a suo figlio, De nuptiis Mercurii et Philologiae "Delle nozze di Mercurio con la Filologia", misto di prosa e versi di vari metri, opera diffusissima durante il medioevo.
La filologia, però, conobbe la sua fioritura durante l’umanesimo con Poliziano nel XV secolo. Si accostò ad Aristotele e alla sua "Poetica" maturando una nuova concezione della filologia umanistica, autonoma dai vincoli retorici connessi al platonismo ficiano e incentrata su una rigorosissima critica dei testi e sulla consapevolezza del valore storico della lingua. Poliziano fu quasi un precursore del criterio genealogico lachmanniano, infatti capì che i codici derivanti da un più antico esemplare sopravvivente non avevano valore ed applicò il principio dell’eliminatio ad alcune copie delle Epistole di Cicerone. Altra figura molto importante fu Erasmo da Rotterdam, che giunse a dedurre il concetto di archetipo studiando la tradizione del Nuovo Testamento. Sebbene avesse di ciò un concetto più vago di quello che abbiamo noi riuscì a spiegare facilmente come si produca un errore comune a tutti i testimoni. Nel settecento si ha una svolta decisiva: dei filologi inglesi e olandesi, tra cui spicca il nome di Richard Bentley (1662,1742) si dedicarono allo studio del Nuovo Testamento- un testo con una ricchissima tradizione manoscritta e numerosissime varianti- comprendendo che era necessaria una rigorosa recensio. Il secolo d’oro della filologia fu, però, l’ottocento in coincidenza col clima positivistico che dilagava in tutta Europa. Infatti, con Lachmann ed altri filologi tedeschi la filologia elaborò il suo metodo e divenne una scienza. Il Lachmann nel 1830, con l’edizione del Nuovo Testamento, confermò le deduzioni dei filologi settecenteschi per quanto riguarda l’archetipo, nel 1831 Carl Zumpt, nell’edizione delle Verrinae, disegnò il primo stemma codicum. Il metodo di Lachmann fu per la prima volta messo a punto nell’edizione del 1850 del De rerum natura. Questo metodo permetteva di risalire all’archetipo attraverso criteri rigorosi e scientifici. In realtà il metodo di Lachmann presentava numerosi limiti specie nel caso delle “tradizioni aperte” cioè di contaminazioni orizzontali del testo. Autore di importanti correzioni al metodo fu il filologo italiano Giorgio Pasquali (1885, 1952).
Vediamo ora con maggior attenzione le fasi del metodo, senza soffermarci su casi particolari, ma fornendo piccoli e chiari esempi.
La procedura seguita ancora oggi dallo studioso che intenda ricostruire la lezione originaria di un testo consta di due momenti essenziali: la recensio, ossia l’analisi rigorosa dei testimoni a disposizione, finalizzata a stabilire le relazioni intercorrenti tra loro e l’emendatio ossia la correzione del testo qualora presenti una lezione corrotta rispetto all’originale. I risultati del filologo sono poi presentati nell’edizione critica.
a)La teoria sistematica di recensione.
Per passare in rassegna i diversi testimoni che ci sono stati tramandati si procede anzitutto alla collazione con un testo di riferimento, che solitamente è costituito dalla più valida edizione a stampa o dal manoscritto più valido. Vengono registrate tutte le varianti testuali e vengono annotati a parte quelli che appaiono essere errori. Gli errori, molto importanti per stabilire le relazioni tra i codici, hanno una genesi diversa: possono essere frutto di una svista del copista, oppure posso essere una manomissione volontaria per motivi di censura, in questo caso si parla di interpolazione. Gli errori si possono dividere in coniunctivi, cioè mostrano che due manoscritti sono più connessi tra loro che con un terzo e in errori separativi, ossia mostrano che un manoscritto è indipendente da un altro perché il secondo contiene uno o più errori dai quali il primo è esente. La genesi degli errori è molteplice: vi sono errori “psicologici” dovuti ad associazioni mentali , come il ricordo di una parola letta e trascritta precedentemente. Altri fenomeni rilevanti èsono: la banalizzazione ossia la tendenza a semplificare ( c.f.r. Lectio difficilior ), l’assimilazione frequente nelle desinenze (mutazione della parte finale di una parola sulla base della desinenza della parola vicina) e l’aplografia cioè lo scrivere una sillaba o un segmento di testo che compare due volte ( defendum per defendendum est). Altri errori molto comuni sono gli errori di lettura come il salto dallo stesso allo stesso.
A questo proposito riportiamo per esemplificare uno schema rappresentate uno stemma codicum tratto da: D. Reynolds- N.G. Wilson, Copisti e Filologi, c.f.r. bibliografia (p223).

ω


(E)
α

X Y Z

β


A γ


B C D


ω Rappresenta l’archetipo, le lettere greche minuscole indicano i codici perduti, ma ipotizzati. Dunque, i codici rimasti sono otto, riguardo a E si suppone che sia un frammento contenente solo una piccola parte di testo. Una volta compilato lo stemma si può procedere alla ricostruzione del testo attraverso lo spoglio varianti, le quali avranno un peso diverso in base alla disposizione, più o meno lontana, dall’archetipo. Sulla base degli errori si stabilisce, ad esempio, che un codice contente tutti gli errori significativi presenti in un altro codice, più almeno un altro errore è derivato da quel codice e quindi non può essere preso in considerazione: eliminatio codicum descriptorum. Ora interpretiamo lo schema sopra ripotato.
1. Se B è derivato esclusivamente da A, differirà da A solo per essere più corrotto. Il primo passo sarà quello di eliminare B.
2. Il testo γ può essere dedotto dall’accordo di C e D.
2. Il testo β può essere ricavato dall’accordo di A,C e D.
3. Il testo α si ricava dall’accordo di X, Y e Z , o di due di essi contro il terzo.
4. Se β ed α sono in accordo si potrà dire che essi diano il testo dell’archetipo, qualora non lo siano possono essere validi entrambi: è compito dell’examinatio decidere quale delle due è autentica.
Un testo, come quello ipotizzato in questo stemma è emendabile grazie a una recensione automatica e si dice cha ha una “tradizione chiusa” (Pasquali). Va tuttavia detto che la teoria stemmatica non è sempre applicabile rigorosamente. In primo luogo gli stemmi tripartiti sono abbastanza pochi ( come quello di Lucrezio), spesso ci si trova di fronte a stemmi bipartiti ( come quello delle opere Plauto). Inoltre, come ha ben sottolineato Pasquali, questa teoria presuppone che le lezioni e gli errori si trasmettano solo verticalmente. E’ invece appurato che i copisti avevano spesso a disposizione più codici e sceglievano confrontandoli tra loro il testo migliore. Ne deriva anche una contaminazione orizzontali, che determina una “ tradizione aperta”, in cui la lezione originaria non può essere dedotta meccanicamente. Dunque, la ricostruzione del testo avviene ope ingegni, ossia attraverso le congetture del filologo. Egli si affiderà a dei criteri:
•Il criterio della lectio difficilior, tra due lezioni, entrambe corrette e valide, sarà più attendibile la lezione più difficile, poiché i copisti tendevano a semplificare il testo essendo la loro lingua diversa da quella dei classici.
•Il criterio dell’usus scribendi, sarà preferibile la lezione che rispecchia lo stile compositivo dell’autore.
•Il criterio paleografico per cui di due lezioni sarà preferibile quella che può essersi corrotta nell’altra per motivi grafici.

lunedì 3 agosto 2009

Saffo FR. 105a

FR. 105a V. Metro: esametro dattilico

οἶον τὸ γλυχὺμαλον ἐρεύθεται ἄχρῳ ἐπ' ὔσδῳ
ἄχρον ἐπ' ἄχροτάτῳ λελάθοντο δὲ μαλοδρόπηεϛ·
οὐ μὰν ἐχλελάθοντ', ἀλλ' οὐχ ἐδύναντ' ἐπὶχεσθαι

come una dolce pomo rosseggia alto sulla cima del ramo,
alto il pomo, sul più alto ramo: la dimenticarono i raccoglitori,
oh no, non se ne dimenticarono, ma non poterono giungervi.


Poesia piena di grazia, contraddistinta da una leggerezza leggerezza di tocco, il carme epitalamico (riservato alle nozze) qui citato tende a lodare una donna andata in sposa in età già avanzata. Saffo allude alla mela trascurata e raccolta per ultima, poiché posta su un ramo troppo elevato e quindi irraggiungibile. Così la è ragazza che ha resistito agli attacchi dei suoi pretendenti portando al limite il fiore dei suoi anni. Ambita da coloro che si sarebbero contentati di sfiorarla solo con la punta delle dita. La fanciulla aveva conservato la sua grazia fiorente per colui che l'avrebbe colta nel giusto tempo. Per questa ragione la mela che rosseggia sul ramo più alto è γλυχὺμαλον (dolce quanto il miele, questo termine lo si ritrova anche in Teocrito 11 38-39, che lo usa per designare l'oggetto dell'amore appassionato del Ciclope).
Saffo riprende l'immagine della mela anche nel secondo verso del frammento e ciò dona a tutta la poesia una grazia sorridente.

venerdì 31 luglio 2009

il mito di Orfeo ed Euridice da Ovidio

IL MITO DI ORFEO ED EURIDICE.
Inde per inmensum croceo velatus amictu
aethera digreditur Ciconumque Hymenaeus ad oras
tendit et Orphea nequiquam voce vocatur.
adfuit ille quidem, sed nec sollemnia verba
nec laetos vultus nec felix attulit omen. 5
fax quoque, quam tenuit, lacrimoso stridula fumo
usque fuit nullosque invenit motibus ignes.
exitus auspicio gravior: nam nupta per herbas
dum nova naiadum turba comitata vagatur,
occidit in talum serpentis dente recepto. 10
quam satis ad superas postquam Rhodopeius auras
deflevit vates, ne non temptaret et umbras,
ad Styga Taenaria est ausus descendere porta
perque leves populos simulacraque functa sepulcro
Persephonen adiit inamoenaque regna tenentem 15
umbrarum dominum pulsisque ad carmina nervis
sic ait: 'o positi sub terra numina mundi,
in quem reccidimus, quicquid mortale creamur,
si licet et falsi positis ambagibus oris
vera loqui sinitis, non huc, ut opaca viderem 20
Tartara, descendi, nec uti villosa colubris
terna Medusaei vincirem guttura monstri:
causa viae est coniunx, in quam calcata venenum
vipera diffudit crescentesque abstulit annos.
posse pati volui nec me temptasse negabo: 25
vicit Amor. supera deus hic bene notus in ora est;
an sit et hic, dubito: sed et hic tamen auguror esse,
famaque si veteris non est mentita rapinae,
vos quoque iunxit Amor. per ego haec loca plena timoris,
per Chaos hoc ingens vastique silentia regni, 30
Eurydices, oro, properata retexite fata.
omnia debemur vobis, paulumque morati
serius aut citius sedem properamus ad unam.
tendimus huc omnes, haec est domus ultima, vosque
humani generis longissima regna tenetis. 35
haec quoque, cum iustos matura peregerit annos,
iuris erit vestri: pro munere poscimus usum;
quodsi fata negant veniam pro coniuge, certum est
nolle redire mihi: leto gaudete duorum.'
Talia dicentem nervosque ad verba moventem 40
exsangues flebant animae; nec Tantalus undam
captavit refugam, stupuitque Ixionis orbis,
nec carpsere iecur volucres, urnisque vacarunt
Belides, inque tuo sedisti, Sisyphe, saxo.
tunc primum lacrimis victarum carmine fama est 45
Eumenidum maduisse genas, nec regia coniunx
sustinet oranti nec, qui regit ima, negare,
Eurydicenque vocant: umbras erat illa recentes
inter et incessit passu de vulnere tardo.
hanc simul et legem Rhodopeius accipit heros, 50
ne flectat retro sua lumina, donec Avernas
exierit valles; aut inrita dona futura.
carpitur adclivis per muta silentia trames,
arduus, obscurus, caligine densus opaca,
nec procul afuerunt telluris margine summae: 55
hic, ne deficeret, metuens avidusque videndi
flexit amans oculos, et protinus illa relapsa est,
bracchiaque intendens prendique et prendere certans
nil nisi cedentes infelix arripit auras.
iamque iterum moriens non est de coniuge quicquam 60
questa suo (quid enim nisi se quereretur amatam?)
supremumque 'vale,' quod iam vix auribus ille
acciperet, dixit revolutaque rursus eodem est.
Non aliter stupuit gemina nece coniugis Orpheus,
quam tria qui timidus, medio portante catenas, 65
colla canis vidit, quem non pavor ante reliquit,
quam natura prior saxo per corpus oborto,
quique in se crimen traxit voluitque videri
Olenos esse nocens, tuque, o confisa figurae,
infelix Lethaea, tuae, iunctissima quondam 70
pectora, nunc lapides, quos umida sustinet Ide.
orantem frustraque iterum transire volentem
portitor arcuerat: septem tamen ille diebus
squalidus in ripa Cereris sine munere sedit;
cura dolorque animi lacrimaeque alimenta fuere. 75
esse deos Erebi crudeles questus, in altam
se recipit Rhodopen pulsumque aquilonibus Haemum.
(P. Ovidi Nasonis Metamorphoseon liber X vv1-77)

TRADUZIONE
Di là s’allontanava, coperto dal suo dorato mantello, per il vasto cielo, Imeneo, andò verso le coste dei Ciconi e venne invocato invano dalla voce di Orfeo. Quello certamente giunse, ma senza i canti nuziali, senza il volto lieto e non portò buoni presagi; anche la fiaccola, che suole stringere nella sua mano, emise, stridula, un fumo portatore di lacrime; benché scossa non divampò. Il risultato fu ancora più grave. Infatti la sposa mentre passeggiava per i prati accompagnata da un gruppo di naiadi, cadde morta penetratole in un piede il dente di un serpente. Il poeta del Rodope dopo che l’ebbe pianta abbastanza nel mondo dei mortali, e per tentar di commuovere anche le ombre, osò discendere fino alla porta Tenaria. Vagò per le turbe leggere delle ombre e dei sepolti, andò al cospetto di Persefone e del signore che tiene il dominio del non bel regno dei morti. Toccate le corde per accompagnare il canto, incominciò: « O dei del mondo posto sotto la terra verso il quale tendiamo a ricadere noi che siamo creati mortali, se è permesso, deposto un discorso che inganna, lasciatemi dire il vero, non discesi qui per vedere il Tartaro senza luce, né per vincere i tre villosi colli di serpente della stirpe di Medusa; la causa della mia venuta è Euridce. nel quale piede una vipera calpestata inoculò il veleno e le sottrasse gli anni fiorenti. Ho voluto poterne sopportare il dolore, non negherò di non aver tentato, ma Amore ha vinto! Questo dio è ben noto sulla terra; mi chiedo se lo sia anche qui, ma mi auguro di si, se non è falso si racconta che anche voi foste uniti da Amore. Per questi luoghi pieni di timore, per questa tenebra infinita e per il vasto regno del silenzio, vi prego, ritessete i fati affrettati di Euridice! Ogni cosa è a voi soggetta, Dopo esserci trattenuti un po’ sulla terra, corriamo, chi prima chi dopo, verso una sola sede. Tutti noi tendiamo qui,m questa è l’ultima dimora, voi tenete il dominio più durevole sul genere umano. Anche lei, quando vecchia saranno volti alla fine gli anni della sua vita, sarà a buon diritto vostra. ve la chiedo solo in prestito. E se i fati negano il perdono per la sposa, è certo che io non vorrò tornare, in tal modo godrete per la morte di due!» Mentre diceva queste cose e muoveva le corde accompagnando il canto, le anime esangui piangevano, Tantalo non cercava di carpire l’onda che rifugge e si fermò la ruota di Issione né gli avvoltoi rosero il fegato a Tizio, le Belidi lasciarono stare le brocche, infine tu, Sisifo, facesti cadere il tuo masso e vi sedesti sopra. E’ fama, che allora, per la prima volta si bagnarono di lacrime, per la commozione, le guance delle Eumenidi, né i re ebbero il coraggio di opporsi alle preghiere, e fecero chiamare Euridice. Ella era tra le ombre recenti e incedette con il passo lento per la ferita. Orfeo Rodopeio la prese per la mano e ricevette l’ordine di non volgere dietro gli occhi, finché non fosse uscito dall’Averno, o sarebbe stato inutile il dono. S’ avviano per l’erto, oscuro sentiero, pieno di caligine opaca, attraverso i muti silenzi. Non eran molto lontani dalla uscita degli inferi, lì, temendo che non ci fosse, avido di vederla voltò gli occhi: e subito lei ricadde avanzando le braccia tentando di prendere lui e di essere ripresa: infelice non afferro nient’altro ché che l’aria che vola via. Morendo per una seconda volta, non ha nulla da rimproverare al marito, se non il fatto di essere stata amata. Fu l’ultimo saluto, saluto che giunse a stento. E tornò nuovamente nello stesso luogo. Orfeo si raggelò per la seconda morte dell’amata, come colui che pieno di spavento vide Cerbero dai tre colli essere incatenato per quello di mezzo e trascinato fuori dagli inferi, il cui timore non svanì prima che tornò la natura di prima, trasmutato egli in sasso. O come Oleno che volle essere considerato colpevole, e te infelice Letea, che, altera, confidasti troppo della tua bellezza, cuori una volta molto uniti, ora siete pietre, che s’innalzano sull’umido Ida. Orfeo pregando invano e volendo entrare per una seconda volta aveva supplicato Caronte, sedette per sette giorni sulla squallida riva, senza toccare cibo: gli furono alimento la preoccupazione, il dolore dell’animo e le lacrime. Dopo essersi lamentato della crudeltà degli dei dell’ebro, si rifugiò sull’elevato Rodope e sull’Emo colpito dagli Aquiloni.

Il trionfo della morte, Orazio

Questo componimento, denominato da La Penna "la regina delle Odi", segna l'ultima parte delle composizioni Oraziane, quando ormai il poeta è vecchio e stanco. Il trionfo della morte non risparmia nessuno neppure il pius Enea, con allusioni anche al pessimismo Lucreziano e in risposta all'ottimismo di Virgilio. Orazio si congeda da noi come una persona che non è riuscita a realizzare il suo ideale di autàrkeia.

Diffugere nives, redeunt iam gramina campis
arboribusque comae;
mutat terra vices et decrescentia ripas
flumina praetereunt;
Gratia cum Nymphis geminisque sororibus audet
ducere nuda choros.
Immortalia ne speres, monet annus et almum
quae rapit hora diem.
Frigora mitescunt Zephyris, ver proterit aestas
interitura, simul
pomifer autumnus fruges effuderit, et mox
bruma recurrit iners.
Damna tamen celeres reparant caelestia lunae:
nos ubi decidimus
quo pater Aeneas, quo Tullus dives et Ancus,
pulvis et umbra sumus.
Quis scit, an adiciant hodiernae crastina summae
tempora di superi?
Cuncta manus avidas fugient heredis, amico
quae dederis animo.
Cum semel occideris et de te splendida Minos
fecerit arbitria,
non, Torquate, genus, non te facundia, non te
restituet pietas:
infernis neque enim tenebris Diana pudicum
liberat Hyppolitum,
nec Lethaea valet Theseus abrumpere caro
vincula Pirithoo.


Si sono sciolte le nevi e già ritornano nei campi le erbe
e le chiome agli alberi,
la terra muta il suo aspetto e i fiumi quasi in secca
scorrono sulle rive;
Una Grazia con le Ninfe e le sorelle Gemelle osa
condurre nuda i cori.
Non sperare nelle cose immortali, ti ammonisce l'anno
e l'alma (=vivificatrice) ora che rapisce il giorno.
I freddi sono mitigati dagli Zefiri, l'estate supera la primavera
destinata a morire non appena
l'autunno portatore di frutti avrà elargito le messi,
e ritorna la bruma(=inverno, termine arcaico latinismo utilizzato dal Petrarca) inerte.
Frattanto le celeri lune riparano i danni del cielo:
noi quando discendemmo
dove c'è il pio Enea e dove ci sono il ricco Tullio e Anco,
siamo polvere ed ombra.
Chi sa se alla somma dei giorni di oggi, gli dei immortali,
vorranno aggiungere quella del domani?
Tutte le cose che avrai dato al tuo animo in vita
sfuggiranno alla mani avide dell'erede.
Una volta che sarai spirato, su di te Minosse
avrà declamato la sua splendida sentenza,
o Torquato, non il tuo nobile lignaggio, non le tue doti oratorie,
non la tua pietà, ti restituiranno la vita,
infatti né Diana libera dall'inferno il pudico Ippolito,
né Teseo riesce a infrangere i letei vincoli al caro Pritoo.



Dimenticavo il metro è la : Strofe Archilochea seconda. E' formata da un esametro ee da una tripodia dattilica catalettica in syllabam. _/ UU; _/ UU, _U/. (Sillaba ancipite accentata.)

Sono comunque presenti riferimenti alla letteratura greca, riguardo al concetto del dissolvimento del corpo dopo la morte, che ricorre spesso nei tragici: ad esempio Sofocle, Elettra 1158 "Ti rese a me, invece ella cara persona cenere e una vana ombra"
o Euripide fr 523 Nauck: " Una volta morto ogni uomo è terra e ombra". Altro riferimento alla cultura greca, ma sua piano linguistico è l'uso dell'aggettivo amico, che equivale a tuo, secondo un uso poetico greco ( specialmente omerico) del termine phílos (φίλος)

Tibullo Elegia I 1-45

Di Albio Tibullo sappiamo ben poco, nacque intorno al 50 a.C. in Lazio, vi evito poi altri dettagli sulla vita. Le opere di Tibullo sono inserite in una raccolta di libri chiamata Corpus Tibullianum. Seguendo il modello elegiaco, Tibullo predilige una vita appartata e semplice, dove alla vita rurale si accompagnavano amori. Di fronte alle angosce di una vita angosciosa spesa in città, tra gli affari e il lusso, portatori di preoccupazioni, la campagna si presentava come un porto sicuro , un rifugio di pace e serenità. Se Properzio l'evasione la trovava nel mondo mitologico, tibullo la trova nella vita agreste, però per entrambi sono due mondi di sogno e aspirazione. Infatti per il nostro autore la campagna non è un luogo X, ma un luogo ideale dove sarebbe possibile la felicità lontana dalle tensioni quotidiane. Tale caratteristica la si può notare nel suo stile: egli infatti fa uso spesse volte di futuri e congiuntivi desiderativi e non indicativi. Lo stile di Tibullo è semplice e lineare, tale però è frutto di un controllo stilistico e e di cura formale, non di trascuratezza e di mancata ricercatezza; è interessante, ergo, notare come lo giudicò Quintiliano: "tersus atque elegans". Voglio porgervi qui l'elegia proemiale, che probabilmente venne composta a libro finito, ma collocata all'inizio perché programmatica. Troviamo,infatti, i temi tipici della poesia tibulliana: il rifiuto della guerra, l'aspirazione verso una vita di campagna, in cui l'amore per il mondo rurale si fonde con l'amore per la "domina". Vi è il contrasto tra la vita semplice e passata nell'ombra, ma certamente felice, del poeta, e le dannose aspirazioni belliche di coloro che vogliono conseguire la gloria anche a scapito della loro stessa vita. Tibullo era certamente molto apprezzato nell'antichità, però cn lo scorrere del tempo perse fama e la riacquistò durante l'umanesimo, ciò è testimoniato dall'assenza di codici tradoantichi e medievali, i primi codici conosciuti sono:l'Ambrosiano (A) del 1375, e il Vaticano Latino 3270 di inizio '400.

Divitias alius fulvo sibi congerat auro
Et teneat culti iugera multa soli,
Quem labor adsiduus vicino terreat hoste,
Martia cui somnos classica pulsa fugent:
Me mea paupertas vita traducat inerti, 5
Dum meus adsiduo luceat igne focus.
Ipse seram teneras maturo tempore vites
Rusticus et facili grandia poma manu;
Nec spes destituat, sed frugum semper acervos
Praebeat et pleno pinguia musta lacu. 10
Nam veneror, seu stipes habet desertus in agris
Seu vetus in trivio florida serta lapis,
Et quodcumque mihi pomum novus educat annus,
Libatum agricolae ponitur ante deo.
Flava Ceres, tibi sit nostro de rure corona 15
Spicea, quae templi pendeat ante fores,
Pomosisque ruber custos ponatur in hortis,
Terreat ut saeva falce Priapus aves.
Vos quoque, felicis quondam, nunc pauperis agri
Custodes, fertis munera vestra, Lares. 20
Tunc vitula innumeros lustrabat caesa iuvencos,
Nunc agna exigui est hostia parva soli.
Agna cadet vobis, quam circum rustica pubes
Clamet 'io messes et bona vina date'.
Iam modo iam possim contentus vivere parvo 25
Nec semper longae deditus esse viae,
Sed Canis aestivos ortus vitare sub umbra
Arboris ad rivos praetereuntis aquae.
Nec tamen interdum pudeat tenuisse bidentem
Aut stimulo tardos increpuisse boves, 30
Non agnamve sinu pigeat fetumve capellae
Desertum oblita matre referre domum.
At vos exiguo pecori, furesque lupique,
Parcite: de magno est praeda petenda grege.
Hic ego pastoremque meum lustrare quotannis 35
Et placidam soleo spargere lacte Palem.
Adsitis, divi, neu vos e paupere mensa
Dona nec e puris spernite fictilibus.
Fictilia antiquus primum sibi fecit agrestis
Pocula, de facili conposuitque luto. 40
Non ego divitias patrum fructusque requiro,
Quos tulit antiquo condita messis avo:
Parva seges satis est, satis requiescere lecto
Si licet et solito membra levare toro.
Quam iuvat inmites ventos audire cubantem 45
Et dominam tenero continuisse sinu
Aut, gelidas hibernus aquas cum fuderit Auster,
Securum somnos igne iuvante sequi.


Altri ammassino per sé ricchezze d'oro splendente
e tengano molti iugeri di terra coltivata,
e lo preoccupi l'ansia per il nemico vicino,
Il suono marziale delle trombe gli tolga il sonno:
me accompagni la mia povertà ad una vita tranquilla,
purché il mio focolare rifulga di luce assidua.
Io stesso come contadino pianterò a tempo opportuno le viti
e con mano esperta splendidi alberi da frutto:
la Speranza non deluda ma offra sempre covoni di grano
e un tino sempre pieno di mosto.
Perché io venero sia un ceppo lasciato nei campi
sia la vecchia pietra all'incrocio tra più strade a cui si recano corone di fiori
e qualunque frutto che l'anno nuovo fa crescere
lo pongo dinnanzi al dio agreste.
Bionda Cerere abbi una corona di spighe dal nostro campo
affinché penda davanti alle porte del tempio;
si ponga nei fertili orti un rosso custode,
un Priapo che spaventi, con la minacciosa falce, gli uccelli.
Voi anche, una volta felici, custodi
di un povero campo, riceve i doni a voi spettanti, o Lari.
Allora l'uccisione di una vitella purificava innumerevoli giovenchi:
ora una piccola agnella è vittima di un piccolo campo.
L'agnella cadrà per voi: ed intorno ad essa la rustica gioventù
canterà: " evviva date date messi e buon vino !".
Ch'io possa, ch'io possa contento vivere con poco,
né essere sempre dedito alla luna via,
ma evitare il sorgere estivo della canicola all'ombra di un albero
alla riva di un ruscello di acqua fresca.
Né per giunta mi vergogno di tenere il bidente,
o di stimolare i lenti buoi con il pungolo;
non mi spiacerà riportare in braccio all'ovile un'agnella
o un piccolo capretto abbandonato per la madre dimentica.
Ma voi ladri e lupi risparmiate il piccolo gregge:
da un grande gregge deve essere ricercata la preda.
Qui io sono solito ogni anno purificare il mio pastore
e spargere latte alla placida Pale.
Assistetemi, o dei, e non disprezzate i doni dalla mia povera mensa
né da vasi d'argilla.
L'antico contadino si costruì per primo vasi d'argilla
e li plasmò da malleabile creta.
Non richiedo le ricchezze e i guadagni dei padri
che la messe riposta forniva all'antico avo:
un piccolo raccolto mi basta; è sufficiente riposare nel mio letto
e distendere il mio corpo sul solito divano.
Quanto è bello ascoltare mentre si è a letto il vento minaccioso,
e tenere l'amata in un tenero abbraccio,
o quando lo scirocco invernale rovescia gelide acque
e abbandonarsi sicuro al sonno all'invito della pioggia.

Finalmente giunge amore

Tandem venit amor, qualem texisse pudori
quam nudasse alicui sit mihi fama magis.
Exorata meis illum Cytherea Camenis
attulit in nostrum deposuitque sinum.
Exsoluit promissa Venus: mea gaudia narret, 5
dicetur si quis non habuisse sua.
Non ego signatis quicquam mandare tabellis,
ne legat id nemo quam meus ante, velim,1
sed peccasse iuvat, vultus componere famae
taedet: cum digno digna fuisse ferar. 10

1: alcuni ammettono " me legat ut nemo quam meus ante..."

I cinque distici sarebbero opera di una giovane di nobile rango: Sulpicia, questo è il primo dei suoi biglietti d'amore, inviati a un non identificato amante Cerinthus. La spiegazione etimologica del nome dell'amante è derivato dalla voce greca kéras , corrispondente al latino cornu, non basta però a comprovare che il giovane sia il cornuto di due elegie di Tibullo. La giovane poetessa , incurante delle norme che nella società romana regolavano il pudore femminile. Essa affida, all'elegia proemiale, il suo orgoglio e la sua gioia di donna innamorata : l'amore è giunto e va dichiarato a tutti, è dolce peccare, disgustoso rimanere pudiche. La donna prova fastidio nell'atteggiarsi in modo da sembrare una ragazza per bene, una sanata, è un raro tocco di sincerità, contro l'ipocrisia di un sistema morale opprimente. E' grande la passione che quasi non vorrebbe neanche affidare le sua parole alle tevvlette sigillate, ella vuole, mentre arde d'amore, dichiarare i suoi sentimenti all'amato senza passare da alcun intermediario.

Finalmente è arrivato l'amore che a tenerlo nascosto per il pudore
ne avrei più disgusto che a rivelarlo a qualcuno.
La Dea Citera, supplicata dalle mie poesie
l'ha portato e l'ha deposto sul mio seno.
Venere ha esaudito le promesse, e sparli della mia gioia
colui di cui si dice che non ha mai goduto le sue gioie.
Io non vorrei affidare nulla alle tavolette di cera,
affinché nessuno legga le poesie prima del mio amore,
sono felice di aver peccato, mi disgusta-però- adeguare i miei atteggiamenti alle circostanze
si possa pure dire che io degna sono stata con uno degno di me.

Lucrezio, felicità e infelicità nella sua opera

Lucrezio da buon maestro cerca di dare un’indicazione al suo lettore per raggiungere la vera felicità. Nel libro III del De rerum natura Lucrezio insiste sulla natura dell’anima, legata indissolubilmente al corpo materiale, e rivolge la sua attenzione sulla riflessione riguardo la morte. Molti critici, tra cui Carlo Giussani, considerano centrale il libro III nell’ambito del poema poiché rivolto a fugare la paura dell’aldilà la quale impedisce il raggiungimento della voluptas il piacere. Nel finale del libro Lucrezio si dedica a chiarire le ragioni dell’inquietudine che grava sulla vita umana. Gli uomini avvertono il peso che opprime il loro animo e, ignorandone, la causa, vivono inquieti spostandosi continuamente, senza riuscire a liberarsi dall’oppressione, poiché cercano invano di sfuggire a se stessi. Se conoscessero la causa del loro male si dedicherebbero solo allo studio della filosofia e a chiedersi cosa aspetti loro dopo la morte. Il canto della contemplazione della morte si conclude con il canto della finitezza della vita, nel discorso di Lucrezio non si menziona la voluptas, vi domina l’amaro di una realtà priva di illusioni, probabilmente, non a caso, l’autore aprirà il IV libro con la trionfante e gioiosa ripetizione ( I 926-950) del suo programma poetico, incentrato sulla metafora del miele, che deve fluire abbondantemente per celare l’amara medicina. Il taedium (la « tetra noia » per dirla come il Parini), la levitas (la morbosa inconstanza), la commutatio loci ( la smania di cambiare luogo), sono mali tipici dell’ignorante e della folla privi dell’ ἀταραξία del sapines epicureo.

Si possent homines, proinde ac sentire videntur
pondus inesse animo, quod se gravitate fatiget,
e quibus id fiat causis quoque noscere et unde
tanta mali tam quam moles in pectore constet,
haut ita vitam agerent, ut nunc plerumque videmus
quid sibi quisque velit nescire et quaerere semper,
commutare locum, quasi onus deponere possit.
exit saepe foras magnis ex aedibus ille,
esse domi quem pertaesumst, subitoque ,
quippe foris nihilo melius qui sentiat esse.
currit agens mannos ad villam praecipitanter
auxilium tectis quasi ferre ardentibus instans;
oscitat extemplo, tetigit cum limina villae,
aut abit in somnum gravis atque oblivia quaerit,
aut etiam properans urbem petit atque revisit.
hoc se quisque modo fugit, at quem scilicet, ut fit,
effugere haut potis est: ingratius haeret et odit
propterea, morbi quia causam non tenet aeger;
quam bene si videat, iam rebus quisque relictis
naturam primum studeat cognoscere rerum,
temporis aeterni quoniam, non unius horae,
ambigitur status, in quo sit mortalibus omnis
aetas, post mortem quae restat cumque manenda.
Denique tanto opere in dubiis trepidare periclis
quae mala nos subigit vitai tanta cupido?
certe equidem finis vitae mortalibus adstat
nec devitari letum pote, quin obeamus.
praeterea versamur ibidem atque insumus usque
nec nova vivendo procuditur ulla voluptas;
sed dum abest quod avemus, id exsuperare videtur
cetera; post aliud, cum contigit illud, avemus
et sitis aequa tenet vitai semper hiantis.
posteraque in dubiost fortunam quam vehat aetas,
quidve ferat nobis casus quive exitus instet.
nec prorsum vitam ducendo demimus hilum
tempore de mortis nec delibare valemus,
quo minus esse diu possimus forte perempti.
proinde licet quot vis vivendo condere saecla,
mors aeterna tamen nihilo minus illa manebit,
nec minus ille diu iam non erit, ex hodierno
lumine qui finem vitai fecit, et ille,
mensibus atque annis qui multis occidit ante.
(Lucrezio De rerum natura III 1053-1099)

Traduzione (la traduzione non è stupenda però è tutta mia)

Se gli uomini potessero, così come si vede che avvertono / che nel loro animo è insito un macigno che li affatica con il suo grande peso, / conoscere da che cosa esso sia causato, / e poiché una tanto grande fardello rimanga ancorato uguale nell’animo, / non vivrebbero in questo modo, come noi per lo più vediamo, che non sa cosa voglia, e cerca sempre di cambiare luogo come se potesse deporre il peso. Quello che si annoia a stare a casa, esce sempre dai grandi palazzi, e subito vi ritorna, dal momento che s’accorge che fuori non v’è nulla di meglio di quanto c’è nella dimora. / Precipitosamente accorre alla villa di campagna aizzando i cavalli, / incalzando come se dovesse portare l’acqua ai tetti che bruciano; / subito sbadiglia, non appena tocca la soglia della casa, / o si immerge nel sonno profondo e cerca di obliare, / o affrettandosi si rivolge verso la città e la riguarda. / In questo modo fugge se stesso, ma questo, come accade, / non riesce a scappare, perciò vi rimane attaccato ed odia, / poiché il malato non conosce la causa della sua malattia; / e questo se ben vedesse, già lasciate da parte tutte le altre cose, / per primo s’impegnerebbe a conoscere la natura delle cose, dal momento che non si discute d’una sola ora, / ma del tempo eterno in cui tutti i mortali sono destinati a passare, / quantunque ne rimanga dopo la morte. / Successivamente quale tanto grande e terribile brama di vivere/ ci costrinse con grande violenza a trepidare in dubbiosi pericoli? / Ai mortali è destinata una fine certa, / né possiamo evitare la morte: ci andiamo incontro. / Inoltre ci muoviamo sempre nello stesso luogo, continuamente rimaniamo prigionieri / né vivendo si schiude alcun nuovo piacere. / Ma mentre ciò che desideriamo è lontano , tale brama sembra / che prenda il sopravvento sulle altre brame, poi , quando si ottiene l’oggetto del desiderio,/ subito ne si vuole un altro e un’eguale sete di vita trattiene coloro che smaniano ardentemente. / Poi, è in dubbio che sorte ci riservi il tempo futuro, / cosa ci porti il caso e quel esito si avvicini. / Né andando avanti a vivere toglieremo qualcosa / al tempo della morte, né riusciremo ad offenderlo / per strappare alla morte qualche secondo. / Allora è permesso vivendo che tu seppellisca quante generazioni vuoi; / non di meno rimarrà quella morte eterna, / né più di tanto quello rimarrà / colui che vide per l’ultima volta oggi il lume della vita, / e colui che è scomparso da anni e anni. l’integrazionw al testo mutilo dei codici è del Poliziano. Praecipitanter, Hapax-legomenon (ἅπαξ λεγόμενον, è una parola che compare una sola volta in un testo e sono utili ai filologi) tale termine sembra coniato da Lucrezio. Fugit il Madvig propone fugitat. Ingratis emendamento del Lambino ( i codici ripotano ingratius). Manenda emendamento del Lambino (i codici riportano manendo).

Notiamo già nelle prime righe dell’estratto un’antitesi tra videntur (è un verbo chiave e presuppone la conoscenza coi sensi) e noscere. La protasi dell’irrealtà sembra rilevare il dato di fatto che il noscere è diverso dal sentire umano e attesta la condizione di coloro che non vivono per la saggezza e non vogliono conoscere la natura delle cose e in virtù di ciò vivono in un perenne stato di angoscia. Lucrezio in questo caso, da buon scienziato, osserva un fenomeno: l’inquietudine degli uomini, ne cerca le cause e i principidi spiegazione. Egli le rintraccia nella superstizione e nella paura per la morte. Oltre a cercare le cause, il nostro autore trova una soluzione al senso di ansietà degli uomini. L’uomo non conosce l’oggetto del suo volere, cerca qualcosa in più al di fuori di esso, ma non riesce ad afferrarlo. Così si dedicano a una moltitudine di attività che possano far dimenticar loro il senso di inquietudine, la paura della morte. Ma la morte non è nulla per l’uomo: “Nil igitur mors est ad nos neque pertinet hilum” (De rerum natura III 830 q£natoj oÙd prÕj 1m©j· tÕ g¦r dialuq ¢naisqhte‹,
tÕ d' ¢naisqhtoàn oÙd prÕj m©j, «nulla è per noi la morte; perché ciò che è dissolto è insensibile, e ciò che è insensibile non è niente per noi» Epicuro (5,2 Arr.)), poiché gli atomi che compongono i corpi sono costretti ad aggregarsi e a disgregarsi continuamente: nulla nasce dal nulla, nulla ritorna al nulla. Il brano, molto incalzante, è caratterizzato da una densa quantità di verbi che starebbero a sottolineare l’affannoso movimento di colui che viaggia e non ha pace. La descrizione è sempre più vivace nei particolari realistici della corsa affannosa: sbadigli, sonno per dimenticare, anche ritorno in città. In particolare gravis e revisit esprimono lo stato d’animo del ricco accasciato dal torpore della noia o freneticamente ansioso di cambiare luogo. Da notare l’accortissima collocazione dei termini che riassumono i fondamenti dottrinali del verbo di Epicuro e l’essenza dello stesso poema lucreziano (studeat, cognoscere v. 1072) e l’accostamento dell’avverbio primum ( che indica la preminenza assoluta dello studio scientifico della natura su ogni altro interesse filosofico) ai termini più concettualmente significativi: “naturam rerum”. Per Lucrezio è fondamentale non preoccuparsi di come trascorrere le ore della vita, ma cercare di sapere quale eventuale esistenza ci attende dopo la morte. Questo passo sembra spesso agli studiosi poco coerente con il pensiero epicureo , perché pare avanzare un’ipotesi di una vita dopo la morte, già ampiamente negata nel corso del libro III. In realtà Lucrezio non si contraddice e tiene a sottolineare la vanità delle occupazioni cui si dedica l’uomo annoiato, l’importanza dello studio filosofico, che verte sulla problematica dell’eternità. Naturalmente la ricerca filosofica condotta sulle orme di Epicuro porterà a negare che una qualsiasi vita attenderà gli uomini dopo la morte. La chiusa del libro è il trionfo del pessimismo lucreziano la mala cupido vitae, la brama ardente di vivere, non solo non giova ad evitare la morte (nec devitari letum) ma neppure ad aggiungere nuovi piaceri (nec nova vivendo procluditur ulla voluptas) né a sottrasi un solo istante dall’inevitabile fine: la vita ha un termine naturalmente fissato. Questa brama di vivere, che istintivamente fa pensare alla volontà di vivere di Schopenhauer, ci schiaccia e ci impedisce il raggiungimento di una serena saggezza. Nulla cambia nella natura, siamo sempre in balia dei nostri interessi contingenti, le misere menti degli uomini si dimenano continuamente senza scopo cercando di cambiare qualcosa che non può essere cambiato: la legge materiale della natura è immutabile. Essi vagano senza meta perdendo di vista l’obiettivo principale della vita: la saggezza, ma dandosi ai piaceri non necessari. Tali oggetti non potranno mai colmare il vuoto poiché “sed dum abest quod avemus, id exsuperare videtur /cetera; post aliud, cum contigit illud, avemus / et sitis aequa tenet vitai semper hiantis” queste parole sembrano anticipare le drammatiche pagine di Leopardi e di Schopenhauer. Il canto si chiude con un climax ascendente: gli ultimi versi suonano quasi come un trionfo della morte. La nostra vita è finita ed è determinata dal caso, non possiamo sottrarle nemmeno un momento, sarebbe totalmente inutile. Il saggio, invece, non ha bisogno di “scalfire il tempo della morte” poiché è giunto alla consapevolezza che la morte non è nulla ed inutile cambiare continuamente luoghi per obliare la sua angoscia.

Qui si apre un dibattito che ha occupato i principali interpreti di Lucrezio: il presunto pessimismo. Sembra strano, che Lucrezio, cantore dell’epicureismo, di una dottrina tendenzialmente ottimistica, presenti spunti pessimistici. Ettore Bignone (in Lucrezio come interprete della filosofia di Epicuro) e Adelmo Barigazzi ( in Lucrezio. La vita e la morte nell’universo. Paravia Torino 1974) sostengono la tesi dell’ottimismo e quindi della piena adesione alla scuola epicurea. Certamente nel poema vi sono cupe immagini di morte e dolore, sostengono quegli studiosi, ma esse devono essere considerate alla luce della dottrina epicurea. Tramite la conoscenza delle leggi della natura e, quindi, anche dei lati negativi di essa si può raggiungere la felicità. Sostenitore della tesi opposta è Luciano Perelli ( in Lucrezio poeta dell’angoscia), nel suo saggio si configura un’immagine di un Lucrezio dubbioso e afflitto dal dubbio che non ha più fiducia nella dottrina epicurea. C’è comunque da notare che Perelli ha utilizzato in maniera massiccia l’analisi psicanalitica che è certamente poco valida nell’analisi di un testo antico. La tesi dell’ottimismo lucreziano trova indubbiamente un elemento di forza, poiché il fine della scuola epicurea starebbe nel liberare l’uomo dall’angoscia, è più persuasivo riconoscere l’esistenza del male nel mondo, ma, al contempo, nutrire la fiducia che grazie alla ragione l’uomo possa giungere alla felicità. La giusta via di mediazione ci è data da Gian Biagio Conte:” i luoghi più eloquenti dell’opera sono le ferite che il conflitto ha lasciato dietro di sé nella dottrina: sotto un certo aspetto le fratture di un pensiero sono più essenziali della continuità che salvaguarda la coerenza logica. […] Di qui l’adito alla polemica contro le illusioni, tanto aspramente avversate perché tanto faticoso è stato liberarsene” (op. cit.). Riconoscere il male e la morte come parti del reale non sono l’indizio di un carattere esistenzialisticamente angosciato, ma segno di una capacità di abbracciare la vita nei suoi aspetti di luce e di ombra.
D’altronde il IV libro si apre con l’immagine luminosa del topos miele-poesia quasi a stemperare i toni cupi e drammatici della chiusa del libro III. Tutti i libri si aprono con immagini splendenti e luminose: il primo con l’inno a venere e l’inno ad Epicuro salvatore degli uomini, il secondo si apre con un’esaltazione del saggio epicureo, il terzo il quinto e il sesto con degli elogi ad Epicuro.

Lucrezio, come accennato, ci dà, oltre alla descrizione di una stirpe umana cieca che non sa raggiungere la vera felicità, il ritratto del saggio beato. Il proemio del libro II prospetta il collegamento con l’etica saldando la conoscenza della natura alla conquista della felicità. In esso sono celebrati i principi fondamentali dell’etica epicurea dall’identificazione del piacere stabile con l’aponìa e con l’ataraxìa all’esortazione a godere le gioie di una vita ritirata (láthe biôsas). Fin dai tempi di Voltaire in questa pagina di Lucrezio è stata ravvisata una sorta di egoistico compiacimento nel sentirsi libero dai pregiudizi e dalle passioni, infatti questo proemio era stato intitolato “rapsodia per una serenità egoistica” . L’ideale di vita che vi traspare viene contrapposto ai modelli negativi della vita associata della continua ricerca di ricchezze e potere militare, da Lucrezio stigmatizzati anche in altri luoghi del poema (cfr. 3, 59 sgg. e 995 sgg.) e dopo di lui sviluppati da Virgilio nel finale del libro II delle Georgiche.

(Testo 2)
Suave, mari magno turbantibus aequora ventis
e terra magnum alterius spectare laborem;
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
sed quibus ipse malis careas quia cernere suave est.
suave etiam belli certamina magna tueri
per campos instructa tua sine parte pericli;
sed nihil dulcius est, bene quam munita tenere
edita doctrina sapientum templa serena,
despicere unde queas alios passimque videre
errare atque viam palantis quaerere vitae,
certare ingenio, contendere nobilitate,
noctes atque dies niti praestante labore
ad summas emergere opes rerumque potiri.
o miseras hominum mentis, o pectora caeca!
qualibus in tenebris vitae quantisque periclis
degitur hoc aevi quod cumquest! nonne videre
nihil aliud sibi naturam latrare, nisi ut qui
corpore seiunctus dolor absit, mente fruatur
iucundo sensu cura semota metuque?
ergo corpoream ad naturam pauca videmus
esse opus omnino: quae demant cumque dolorem,
delicias quoque uti multas substernere possint
gratius interdum, neque natura ipsa requirit,
si non aurea sunt iuvenum simulacra per aedes
lampadas igniferas manibus retinentia dextris,
lumina nocturnis epulis ut suppeditentur,
nec domus argento fulget auroque renidet
nec citharae reboant laqueata aurataque templa,
cum tamen inter se prostrati in gramine molli
propter aquae rivum sub ramis arboris altae
non magnis opibus iucunde corpora curant,
praesertim cum tempestas adridet et anni
tempora conspergunt viridantis floribus herbas.
nec calidae citius decedunt corpore febres,
textilibus si in picturis ostroque rubenti
iacteris, quam si in plebeia veste cubandum est.
quapropter quoniam nihil nostro in corpore gazae
proficiunt neque nobilitas nec gloria regni,
quod super est, animo quoque nil prodesse putandum;
si non forte tuas legiones per loca campi
fervere cum videas belli simulacra cientis,
subsidiis magnis et ecum vi constabilitas,
ornatas armis statuas pariterque animatas,
his tibi tum rebus timefactae religiones
effugiunt animo pavidae mortisque timores
tum vacuum pectus lincunt curaque solutum.
quod si ridicula haec ludibriaque esse videmus,
re veraque metus hominum curaeque sequaces
nec metuunt sonitus armorum nec fera tela
audacterque inter reges rerumque potentis
versantur neque fulgorem reverentur ab auro
nec clarum vestis splendorem purpureai,
quid dubitas quin omnis sit haec rationis potestas,
omnis cum in tenebris praesertim vita laboret?
nam vel uti pueri trepidant atque omnia caecis
in tenebris metuunt, sic nos in luce timemus
inter dum, nihilo quae sunt metuenda magis quam
quae pueri in tenebris pavitant finguntque futura.
hunc igitur terrorem animi tenebrasque necessest
non radii solis neque lucida tela diei
discutiant, sed naturae species ratioque.
(Lucrezio De rerum natura II 1-61)

Traduzione

E’ dolce, quando il vasto mare è sconvolto dai venti, / guardare da terra il grande travaglio degli altri, / non per provar piacere dalle svenute altrui, / ma, poiché, allieta vedere da quali mali ci si è sottratti. / E’ dolce, anche, osservare i grandi scontri di guerra / sugli schieramenti, senza essere in pericolo. / Ma non v’è nulla di più dolce del risiedere sugli alti templi sereni / resi sicuri dalla dottrina dei sapienti / dall’alto dei quali si possono osservare gli altri e vederli /smarriti errare qua e là ricercando la via della vita: / gareggiare per l’ingegno, combattere per la nobiltà, / sforzarsi di giorno e di notte con ingente fatica / a giungere a eccelsa opulenza e d’impadronirsi il potere. / Oh misere menti degli uomini, o cuori insensibili! / In quali tenebre, in quali pericoli trascorriamo / questo poco di vita, quale esso sia. E come non vedere / che la natura non reclama nulla per sé, se non / che il dolore se ne stia lontano dal corpo e che / nell’animo goda d’una giocosa sensazione sciolta dagli affanni e dal timore? / Quindi notiamo che alla natura corporea bastino veramente / poche cose che leniscano il dolore, / sicché possano dispensare molti dolci piaceri. / talvolta è più piacevole- né la stessa natura lo richiede, / se non vi sono statue dorate per le stanze d’una villa, / che tengano con le destre delle lampade, / per illuminare i banchetti notturni, / è che la casa risplenda d’oro e d’argento, / né che le cetre facciano rimbombare i soffitti intagliati e dorati- / quando, tuttavia, fra amici, vicino a un corso d’acqua, / sotto le fronde di un albero, / senza grandi agi, si prendono cura del corpo, / specialmente il tempo sorride e la stagione / propizia cosparge i campi verdi di fiori. / Né le febbri abbandonano prima il corpo caldo/ se ci si rigira in coperte dipinte e rose di porpora, / piuttosto che si dorma in una veste plebea. / Poiché i tesori, la nobiltà e la gloria di regno / non giovano nulla al nostro corpo, / per il resto non bisogna pensare nemmeno che servano alla nostra anima; / a meno, per caso, vedendo le tue legioni / muoversi fervidamente per il campo di battaglia, suscitando immagini di guerra / rafforzate da truppe ausiliarie e dalla forza dei cavalli, / equipaggiate d’armi e parimenti animate di spirito bellicoso, / e vedendo la flotta veleggiare ampiamente, / le superstizioni atterrite da questi fatti / fuggano da te pavide; e i timori della morte / ti lascino il cuore leggero e sciolto da preoccupazioni. / E se queste cose ci paiono ridicole e degne di scherno, / in verità le paure degli uomini e le preoccupazioni che ne conseguono / non temono né il suono delle armi né le lance minacciose / audacemente s’aggirano tra i re e tra i ricchi / né hanno reverenza per il fulgore dell’oro / né del luminoso splendore d’una veste purpurea, / perché dubiti che il potere sia tutto della ragione, / essendo tutta la vita travagliata nelle tenebre? / Infatti come i fanciulli tremano e / temono tutto nelle buie tenebre, così noi / alla luce temiamo quelle cose che per niente si debbono temere / di più di quelle che spaventano i fanciulli nelle tenebre immaginandole imminenti. / E’, allora, necessario che questo timore dell’animo e queste tenebre / non vengano dissipate né dai raggi del sole né dai lucenti dardi del giorno, / ma dallo studio e dell’osservazione della natura.

Il saggio assapora la felicità stando tranquillo a contemplare l’affanno altrui. In questo modo, infatti, acquista la percezione del piacere, che consiste nella mancanza di dolore e turbamento. L’inizio del brano è lento, quasi affannoso, con la triplice anafora di suave, poi sempre più mosso e concitato fino che il poeta si lascia coinvolgere dal compianto per la miseria umana. Enjambements, esclamazioni, interrogazioni e riprese accentuano l’impatto emotivo del testo, stemprata, poi, in una ricca serie di immagini Il lessico nettamente positivo ( suave, dulcius, edita, serena, iucundu sensu, Gratis, in luce ) che connota la felicità del saggio, si contrappone ad espressioni negative ( tenebris, errare, mortisque timores, religiones, terrorem animi, metus hominum cauraeque ). Nell’incipit del brano si intrecciano numerosi riferimenti colti: l’immagine potente dello scampato alla tempesta, il quale dalla terraferma contempla, compiaciuto, le traversia del naufrago, era diffusa nella letteratura classica: Sofocle fr. 579N.; Archiloco fr. 43 K.; Cicerone Att II 7,4; a cui si possono aggiungere i versi 902-911 del terzo stasimo delle Baccanti di Euripide, e Orazio Epistola I 11,10. L’espressione non è da intendere nel senso che il saggio provi piacere di fronte al disagio altrui, ma che, assistendo da lontano, dall’alto della ragione, al meschino affannarsi degli altri uomini si sente libero dai mali che spingono ad affrontare rischi e pericoli di ogni genere e assapora la vera felicità, che consiste nella mancanza di dolore. La scrittura di Lucrezio continua in un incessante intreccio di parole che tendono a sottolineare l’altezza dello stile: suave è replicato con variatio e climax, il lessico è ricercato ed elegante, in certare ingenio e contendere nobilitate l’allitterazione degli infiniti e la cesura del verso accentuano il parallelismo dei due cola. Già nei versi 8-13 incominciano ad accentuarsi le differenze tra colui il quale risiede sui Templa serena dei saggi, e colui il quae erra senza scopo nel mondo, senza trovare un fine, ma si sforza per raggiungere una felicità che risulterà essere effimera. Questi versi dal forte impatto emotivo (despicere unde il verbo dà comunque l’idea dell’osservare dall’alto verso il basso… errare atuqe viam palantis quaerere vitae… certare ingenio…contendere nobilitate… rerumque potiri”) ci ricordano quelli del brano precedentemente proposto dove erano elencate con un ritmo incalzante tutte le varie azioni che il ricco annoiato compiva per a fuggire al malessere della vita. In questi versi, lo si vedrà più avanti, viene data un’indicazione chiara e esemplificata per raggiungere la vera serenità. A questa parte luminosa e solare si contrappone una seconda parte buia e tenebrosa: o miseras hominum mentis, o pectora caeca (v14), l’esclamazione è rimarcata dal chiasmo degli accusativi che pone in rilievo gli attributi, dalla forte cesura eftemimera, dalle evidenti assonanze della della m e della c, sa notarsi anche l’evidente metonimia di gusto virgiliano. L’impeto di questi versi risuona anche nell’ XI canto del Paradiso dantesco: “oh insensata cura de’mortali, / quanto son difettivi sillogismi / quei che ti fanno in basso batter l’ali!” (vv.1-3). Vi è poi un crescendo di drammaticità, l’ interrogativa retorica “nonne videre…” (v.16), nella forma del cosiddetto infinitum indignationis rende più patetica l’argomentazione, che trova il culmine al verso 17: “nil aliud sibi naturam latrare…”. La natura grida imperiosamente, animalescamente, il verbo latrare, forse connesso etimologicamente con lamentum, inserisce l’analogia nell’uso letterario che trova un suo precedente in Ennio (animusque in pecora latrat v.481 Skutsch) e in Omero (XX 13), riferito al cuore che latra dal dentro (come in Ennio): ὕστατα καὶ πύματα· κραδίη δέ οἱ ἔνδον ὑλάκτει… (..per l’ultima volta, il suo cuore di dentro latrava, di cui il verbo ὑλάκτει indica proprio il latrare dei cani). Ma l’immagine della natura che grida imperiosamente le sue richieste è anche in Epicuro, fr. 22 Arrighetti “ Non considerare innaturale, che, quando grida la carne anche l’anima gridi. Il grido della carne è: non aver fame, non aver sete e non aver freddo”. L’mmagine ha una forte intensità proprio per richiamare l’attenzione sui due concetti basilari della morale epicurea, che verranno poi enunciati: l’assenza di dolore e l’assenza di turbamento. La soddisfazione dei desideri del corpo richiede assai poco: non sono necessari banchetti in ambienti sfarzosi, infatti il contatto con la natura e l’amici basta per raggiungere la felicità, senza indulgere in un lusso fine a se stesso. Secondo la classificazione epicurea, quelli che tolgono il dolore sono i piaceri naturali e necessari. La soddisfazione dei desideri naturali e necessari non solo toglie il dolore, ma assicura anche molti piaceri, come secondo l’esempio, il mangiare e il bere in compagnia. Già il verbo substernere (v.22) è di per se eloquente (letteralmente “stendere sotto”) indica l’apporto di piacere implicito legato ai bisogni essenziali dell’uomo. Ai pochi beni necessari Lucrezio accosta i piaceri superflui , di cui quelli non naturali (vv24-28), che sono nocivi e quelli necessari e naturali, ammessi dalla dottrina epicurea. Lucrezio, riprendendo dei versi omerici, evoca il clima inutilmente sfarzoso delle ville romane. Le statue di giovani reggenti fiaccole compaiono nella descrizione di Omero della villa di Alcinoo:
χρύσειοι δ' ἄρα κοῦροι ἐϋδμήτων ἐπὶ βωμῶν
ἕστασαν αἰθομένας δαΐδας μετὰ χερσὶν ἔχοντες,
φαίνοντες νύκτας κατὰ δώματα δαιτυμόνεσσι.
(Omero, Odissea VII 100-102)
Successivamente in questi versi Lucrezio delinea un quadro paesaggistico ameno, idilliaco, che sarà l’unico modello latino della poesia bucolico pastorale virgiliana. Al ridente quadro dei piaceri naturali, Lucrezio oppone una nuova visone antitetica: i malanni non vengono allontanati più rapidamente da un tenore di vita lussuoso, che da uno modesto. Tutti mali che affliggono gli uomini: le superstizioni religiose , non possono essere fugati attraverso inutili prove di forza. Infatti Lucrezio tende a sottolinearlo utilizzando clausole ironiche come “si non forte” al verso 40. Da notarsi, comunque il clima tutto romano della scena delle esercitazioni militari, forse uno dei pochi collegamenti che il nostro autore fa con il suo periodo storico. Qual è dunque la via di fuga a questi mali? Lo studio appassionato della natura e dei suoi meccanismi. In questo caso ci allacciamo al testo del libro III, infatti, la soluzione che viene esposta è sostanzialmente la stessa: lo studio della natura. La ricchezza e il potere ( nel libro III erano descritte delle azioni di un ricco nobile annoiato) non riescono a prevalere sulle angosce e sulle paure che affliggono gli uomini. Lutezio nell’argomentare procede per espressioni binarie (es. ridicula… ludibriaque), ma la ridondanza qui ha la funzione di instaurare un rapporto tra le paure e le preoccupazioni quasi personificate. Il brano va via via concludendosi con una metafora colta ripresa dal Fedone (77) di Platone, l’espressione dei fanciulli che temono le tenebre interpreta suggestivamente e allusivamente il contrasto tra l’ignoranza del Vero e la dottrina del filosofo. Gli uomini, a differenza dei bambini, hanno paura anche alla luce del sole perché essa non riesce a dissipare le tenebre dell’intelletto. Come usuale in Lucrezio l’argomentazione si conclude con una formula quasi con degli epifonemi. In questo caso la chiusura è del tutto simile a quella del libro III ed insiste sul fatto, ripreso in tutto il poema, che il timor e l’horror gravano sulla vita degli uomini come conseguenza della paura degli dei.