venerdì 31 luglio 2009

Lucrezio, felicità e infelicità nella sua opera

Lucrezio da buon maestro cerca di dare un’indicazione al suo lettore per raggiungere la vera felicità. Nel libro III del De rerum natura Lucrezio insiste sulla natura dell’anima, legata indissolubilmente al corpo materiale, e rivolge la sua attenzione sulla riflessione riguardo la morte. Molti critici, tra cui Carlo Giussani, considerano centrale il libro III nell’ambito del poema poiché rivolto a fugare la paura dell’aldilà la quale impedisce il raggiungimento della voluptas il piacere. Nel finale del libro Lucrezio si dedica a chiarire le ragioni dell’inquietudine che grava sulla vita umana. Gli uomini avvertono il peso che opprime il loro animo e, ignorandone, la causa, vivono inquieti spostandosi continuamente, senza riuscire a liberarsi dall’oppressione, poiché cercano invano di sfuggire a se stessi. Se conoscessero la causa del loro male si dedicherebbero solo allo studio della filosofia e a chiedersi cosa aspetti loro dopo la morte. Il canto della contemplazione della morte si conclude con il canto della finitezza della vita, nel discorso di Lucrezio non si menziona la voluptas, vi domina l’amaro di una realtà priva di illusioni, probabilmente, non a caso, l’autore aprirà il IV libro con la trionfante e gioiosa ripetizione ( I 926-950) del suo programma poetico, incentrato sulla metafora del miele, che deve fluire abbondantemente per celare l’amara medicina. Il taedium (la « tetra noia » per dirla come il Parini), la levitas (la morbosa inconstanza), la commutatio loci ( la smania di cambiare luogo), sono mali tipici dell’ignorante e della folla privi dell’ ἀταραξία del sapines epicureo.

Si possent homines, proinde ac sentire videntur
pondus inesse animo, quod se gravitate fatiget,
e quibus id fiat causis quoque noscere et unde
tanta mali tam quam moles in pectore constet,
haut ita vitam agerent, ut nunc plerumque videmus
quid sibi quisque velit nescire et quaerere semper,
commutare locum, quasi onus deponere possit.
exit saepe foras magnis ex aedibus ille,
esse domi quem pertaesumst, subitoque ,
quippe foris nihilo melius qui sentiat esse.
currit agens mannos ad villam praecipitanter
auxilium tectis quasi ferre ardentibus instans;
oscitat extemplo, tetigit cum limina villae,
aut abit in somnum gravis atque oblivia quaerit,
aut etiam properans urbem petit atque revisit.
hoc se quisque modo fugit, at quem scilicet, ut fit,
effugere haut potis est: ingratius haeret et odit
propterea, morbi quia causam non tenet aeger;
quam bene si videat, iam rebus quisque relictis
naturam primum studeat cognoscere rerum,
temporis aeterni quoniam, non unius horae,
ambigitur status, in quo sit mortalibus omnis
aetas, post mortem quae restat cumque manenda.
Denique tanto opere in dubiis trepidare periclis
quae mala nos subigit vitai tanta cupido?
certe equidem finis vitae mortalibus adstat
nec devitari letum pote, quin obeamus.
praeterea versamur ibidem atque insumus usque
nec nova vivendo procuditur ulla voluptas;
sed dum abest quod avemus, id exsuperare videtur
cetera; post aliud, cum contigit illud, avemus
et sitis aequa tenet vitai semper hiantis.
posteraque in dubiost fortunam quam vehat aetas,
quidve ferat nobis casus quive exitus instet.
nec prorsum vitam ducendo demimus hilum
tempore de mortis nec delibare valemus,
quo minus esse diu possimus forte perempti.
proinde licet quot vis vivendo condere saecla,
mors aeterna tamen nihilo minus illa manebit,
nec minus ille diu iam non erit, ex hodierno
lumine qui finem vitai fecit, et ille,
mensibus atque annis qui multis occidit ante.
(Lucrezio De rerum natura III 1053-1099)

Traduzione (la traduzione non è stupenda però è tutta mia)

Se gli uomini potessero, così come si vede che avvertono / che nel loro animo è insito un macigno che li affatica con il suo grande peso, / conoscere da che cosa esso sia causato, / e poiché una tanto grande fardello rimanga ancorato uguale nell’animo, / non vivrebbero in questo modo, come noi per lo più vediamo, che non sa cosa voglia, e cerca sempre di cambiare luogo come se potesse deporre il peso. Quello che si annoia a stare a casa, esce sempre dai grandi palazzi, e subito vi ritorna, dal momento che s’accorge che fuori non v’è nulla di meglio di quanto c’è nella dimora. / Precipitosamente accorre alla villa di campagna aizzando i cavalli, / incalzando come se dovesse portare l’acqua ai tetti che bruciano; / subito sbadiglia, non appena tocca la soglia della casa, / o si immerge nel sonno profondo e cerca di obliare, / o affrettandosi si rivolge verso la città e la riguarda. / In questo modo fugge se stesso, ma questo, come accade, / non riesce a scappare, perciò vi rimane attaccato ed odia, / poiché il malato non conosce la causa della sua malattia; / e questo se ben vedesse, già lasciate da parte tutte le altre cose, / per primo s’impegnerebbe a conoscere la natura delle cose, dal momento che non si discute d’una sola ora, / ma del tempo eterno in cui tutti i mortali sono destinati a passare, / quantunque ne rimanga dopo la morte. / Successivamente quale tanto grande e terribile brama di vivere/ ci costrinse con grande violenza a trepidare in dubbiosi pericoli? / Ai mortali è destinata una fine certa, / né possiamo evitare la morte: ci andiamo incontro. / Inoltre ci muoviamo sempre nello stesso luogo, continuamente rimaniamo prigionieri / né vivendo si schiude alcun nuovo piacere. / Ma mentre ciò che desideriamo è lontano , tale brama sembra / che prenda il sopravvento sulle altre brame, poi , quando si ottiene l’oggetto del desiderio,/ subito ne si vuole un altro e un’eguale sete di vita trattiene coloro che smaniano ardentemente. / Poi, è in dubbio che sorte ci riservi il tempo futuro, / cosa ci porti il caso e quel esito si avvicini. / Né andando avanti a vivere toglieremo qualcosa / al tempo della morte, né riusciremo ad offenderlo / per strappare alla morte qualche secondo. / Allora è permesso vivendo che tu seppellisca quante generazioni vuoi; / non di meno rimarrà quella morte eterna, / né più di tanto quello rimarrà / colui che vide per l’ultima volta oggi il lume della vita, / e colui che è scomparso da anni e anni. l’integrazionw al testo mutilo dei codici è del Poliziano. Praecipitanter, Hapax-legomenon (ἅπαξ λεγόμενον, è una parola che compare una sola volta in un testo e sono utili ai filologi) tale termine sembra coniato da Lucrezio. Fugit il Madvig propone fugitat. Ingratis emendamento del Lambino ( i codici ripotano ingratius). Manenda emendamento del Lambino (i codici riportano manendo).

Notiamo già nelle prime righe dell’estratto un’antitesi tra videntur (è un verbo chiave e presuppone la conoscenza coi sensi) e noscere. La protasi dell’irrealtà sembra rilevare il dato di fatto che il noscere è diverso dal sentire umano e attesta la condizione di coloro che non vivono per la saggezza e non vogliono conoscere la natura delle cose e in virtù di ciò vivono in un perenne stato di angoscia. Lucrezio in questo caso, da buon scienziato, osserva un fenomeno: l’inquietudine degli uomini, ne cerca le cause e i principidi spiegazione. Egli le rintraccia nella superstizione e nella paura per la morte. Oltre a cercare le cause, il nostro autore trova una soluzione al senso di ansietà degli uomini. L’uomo non conosce l’oggetto del suo volere, cerca qualcosa in più al di fuori di esso, ma non riesce ad afferrarlo. Così si dedicano a una moltitudine di attività che possano far dimenticar loro il senso di inquietudine, la paura della morte. Ma la morte non è nulla per l’uomo: “Nil igitur mors est ad nos neque pertinet hilum” (De rerum natura III 830 q£natoj oÙd prÕj 1m©j· tÕ g¦r dialuq ¢naisqhte‹,
tÕ d' ¢naisqhtoàn oÙd prÕj m©j, «nulla è per noi la morte; perché ciò che è dissolto è insensibile, e ciò che è insensibile non è niente per noi» Epicuro (5,2 Arr.)), poiché gli atomi che compongono i corpi sono costretti ad aggregarsi e a disgregarsi continuamente: nulla nasce dal nulla, nulla ritorna al nulla. Il brano, molto incalzante, è caratterizzato da una densa quantità di verbi che starebbero a sottolineare l’affannoso movimento di colui che viaggia e non ha pace. La descrizione è sempre più vivace nei particolari realistici della corsa affannosa: sbadigli, sonno per dimenticare, anche ritorno in città. In particolare gravis e revisit esprimono lo stato d’animo del ricco accasciato dal torpore della noia o freneticamente ansioso di cambiare luogo. Da notare l’accortissima collocazione dei termini che riassumono i fondamenti dottrinali del verbo di Epicuro e l’essenza dello stesso poema lucreziano (studeat, cognoscere v. 1072) e l’accostamento dell’avverbio primum ( che indica la preminenza assoluta dello studio scientifico della natura su ogni altro interesse filosofico) ai termini più concettualmente significativi: “naturam rerum”. Per Lucrezio è fondamentale non preoccuparsi di come trascorrere le ore della vita, ma cercare di sapere quale eventuale esistenza ci attende dopo la morte. Questo passo sembra spesso agli studiosi poco coerente con il pensiero epicureo , perché pare avanzare un’ipotesi di una vita dopo la morte, già ampiamente negata nel corso del libro III. In realtà Lucrezio non si contraddice e tiene a sottolineare la vanità delle occupazioni cui si dedica l’uomo annoiato, l’importanza dello studio filosofico, che verte sulla problematica dell’eternità. Naturalmente la ricerca filosofica condotta sulle orme di Epicuro porterà a negare che una qualsiasi vita attenderà gli uomini dopo la morte. La chiusa del libro è il trionfo del pessimismo lucreziano la mala cupido vitae, la brama ardente di vivere, non solo non giova ad evitare la morte (nec devitari letum) ma neppure ad aggiungere nuovi piaceri (nec nova vivendo procluditur ulla voluptas) né a sottrasi un solo istante dall’inevitabile fine: la vita ha un termine naturalmente fissato. Questa brama di vivere, che istintivamente fa pensare alla volontà di vivere di Schopenhauer, ci schiaccia e ci impedisce il raggiungimento di una serena saggezza. Nulla cambia nella natura, siamo sempre in balia dei nostri interessi contingenti, le misere menti degli uomini si dimenano continuamente senza scopo cercando di cambiare qualcosa che non può essere cambiato: la legge materiale della natura è immutabile. Essi vagano senza meta perdendo di vista l’obiettivo principale della vita: la saggezza, ma dandosi ai piaceri non necessari. Tali oggetti non potranno mai colmare il vuoto poiché “sed dum abest quod avemus, id exsuperare videtur /cetera; post aliud, cum contigit illud, avemus / et sitis aequa tenet vitai semper hiantis” queste parole sembrano anticipare le drammatiche pagine di Leopardi e di Schopenhauer. Il canto si chiude con un climax ascendente: gli ultimi versi suonano quasi come un trionfo della morte. La nostra vita è finita ed è determinata dal caso, non possiamo sottrarle nemmeno un momento, sarebbe totalmente inutile. Il saggio, invece, non ha bisogno di “scalfire il tempo della morte” poiché è giunto alla consapevolezza che la morte non è nulla ed inutile cambiare continuamente luoghi per obliare la sua angoscia.

Qui si apre un dibattito che ha occupato i principali interpreti di Lucrezio: il presunto pessimismo. Sembra strano, che Lucrezio, cantore dell’epicureismo, di una dottrina tendenzialmente ottimistica, presenti spunti pessimistici. Ettore Bignone (in Lucrezio come interprete della filosofia di Epicuro) e Adelmo Barigazzi ( in Lucrezio. La vita e la morte nell’universo. Paravia Torino 1974) sostengono la tesi dell’ottimismo e quindi della piena adesione alla scuola epicurea. Certamente nel poema vi sono cupe immagini di morte e dolore, sostengono quegli studiosi, ma esse devono essere considerate alla luce della dottrina epicurea. Tramite la conoscenza delle leggi della natura e, quindi, anche dei lati negativi di essa si può raggiungere la felicità. Sostenitore della tesi opposta è Luciano Perelli ( in Lucrezio poeta dell’angoscia), nel suo saggio si configura un’immagine di un Lucrezio dubbioso e afflitto dal dubbio che non ha più fiducia nella dottrina epicurea. C’è comunque da notare che Perelli ha utilizzato in maniera massiccia l’analisi psicanalitica che è certamente poco valida nell’analisi di un testo antico. La tesi dell’ottimismo lucreziano trova indubbiamente un elemento di forza, poiché il fine della scuola epicurea starebbe nel liberare l’uomo dall’angoscia, è più persuasivo riconoscere l’esistenza del male nel mondo, ma, al contempo, nutrire la fiducia che grazie alla ragione l’uomo possa giungere alla felicità. La giusta via di mediazione ci è data da Gian Biagio Conte:” i luoghi più eloquenti dell’opera sono le ferite che il conflitto ha lasciato dietro di sé nella dottrina: sotto un certo aspetto le fratture di un pensiero sono più essenziali della continuità che salvaguarda la coerenza logica. […] Di qui l’adito alla polemica contro le illusioni, tanto aspramente avversate perché tanto faticoso è stato liberarsene” (op. cit.). Riconoscere il male e la morte come parti del reale non sono l’indizio di un carattere esistenzialisticamente angosciato, ma segno di una capacità di abbracciare la vita nei suoi aspetti di luce e di ombra.
D’altronde il IV libro si apre con l’immagine luminosa del topos miele-poesia quasi a stemperare i toni cupi e drammatici della chiusa del libro III. Tutti i libri si aprono con immagini splendenti e luminose: il primo con l’inno a venere e l’inno ad Epicuro salvatore degli uomini, il secondo si apre con un’esaltazione del saggio epicureo, il terzo il quinto e il sesto con degli elogi ad Epicuro.

Lucrezio, come accennato, ci dà, oltre alla descrizione di una stirpe umana cieca che non sa raggiungere la vera felicità, il ritratto del saggio beato. Il proemio del libro II prospetta il collegamento con l’etica saldando la conoscenza della natura alla conquista della felicità. In esso sono celebrati i principi fondamentali dell’etica epicurea dall’identificazione del piacere stabile con l’aponìa e con l’ataraxìa all’esortazione a godere le gioie di una vita ritirata (láthe biôsas). Fin dai tempi di Voltaire in questa pagina di Lucrezio è stata ravvisata una sorta di egoistico compiacimento nel sentirsi libero dai pregiudizi e dalle passioni, infatti questo proemio era stato intitolato “rapsodia per una serenità egoistica” . L’ideale di vita che vi traspare viene contrapposto ai modelli negativi della vita associata della continua ricerca di ricchezze e potere militare, da Lucrezio stigmatizzati anche in altri luoghi del poema (cfr. 3, 59 sgg. e 995 sgg.) e dopo di lui sviluppati da Virgilio nel finale del libro II delle Georgiche.

(Testo 2)
Suave, mari magno turbantibus aequora ventis
e terra magnum alterius spectare laborem;
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
sed quibus ipse malis careas quia cernere suave est.
suave etiam belli certamina magna tueri
per campos instructa tua sine parte pericli;
sed nihil dulcius est, bene quam munita tenere
edita doctrina sapientum templa serena,
despicere unde queas alios passimque videre
errare atque viam palantis quaerere vitae,
certare ingenio, contendere nobilitate,
noctes atque dies niti praestante labore
ad summas emergere opes rerumque potiri.
o miseras hominum mentis, o pectora caeca!
qualibus in tenebris vitae quantisque periclis
degitur hoc aevi quod cumquest! nonne videre
nihil aliud sibi naturam latrare, nisi ut qui
corpore seiunctus dolor absit, mente fruatur
iucundo sensu cura semota metuque?
ergo corpoream ad naturam pauca videmus
esse opus omnino: quae demant cumque dolorem,
delicias quoque uti multas substernere possint
gratius interdum, neque natura ipsa requirit,
si non aurea sunt iuvenum simulacra per aedes
lampadas igniferas manibus retinentia dextris,
lumina nocturnis epulis ut suppeditentur,
nec domus argento fulget auroque renidet
nec citharae reboant laqueata aurataque templa,
cum tamen inter se prostrati in gramine molli
propter aquae rivum sub ramis arboris altae
non magnis opibus iucunde corpora curant,
praesertim cum tempestas adridet et anni
tempora conspergunt viridantis floribus herbas.
nec calidae citius decedunt corpore febres,
textilibus si in picturis ostroque rubenti
iacteris, quam si in plebeia veste cubandum est.
quapropter quoniam nihil nostro in corpore gazae
proficiunt neque nobilitas nec gloria regni,
quod super est, animo quoque nil prodesse putandum;
si non forte tuas legiones per loca campi
fervere cum videas belli simulacra cientis,
subsidiis magnis et ecum vi constabilitas,
ornatas armis statuas pariterque animatas,
his tibi tum rebus timefactae religiones
effugiunt animo pavidae mortisque timores
tum vacuum pectus lincunt curaque solutum.
quod si ridicula haec ludibriaque esse videmus,
re veraque metus hominum curaeque sequaces
nec metuunt sonitus armorum nec fera tela
audacterque inter reges rerumque potentis
versantur neque fulgorem reverentur ab auro
nec clarum vestis splendorem purpureai,
quid dubitas quin omnis sit haec rationis potestas,
omnis cum in tenebris praesertim vita laboret?
nam vel uti pueri trepidant atque omnia caecis
in tenebris metuunt, sic nos in luce timemus
inter dum, nihilo quae sunt metuenda magis quam
quae pueri in tenebris pavitant finguntque futura.
hunc igitur terrorem animi tenebrasque necessest
non radii solis neque lucida tela diei
discutiant, sed naturae species ratioque.
(Lucrezio De rerum natura II 1-61)

Traduzione

E’ dolce, quando il vasto mare è sconvolto dai venti, / guardare da terra il grande travaglio degli altri, / non per provar piacere dalle svenute altrui, / ma, poiché, allieta vedere da quali mali ci si è sottratti. / E’ dolce, anche, osservare i grandi scontri di guerra / sugli schieramenti, senza essere in pericolo. / Ma non v’è nulla di più dolce del risiedere sugli alti templi sereni / resi sicuri dalla dottrina dei sapienti / dall’alto dei quali si possono osservare gli altri e vederli /smarriti errare qua e là ricercando la via della vita: / gareggiare per l’ingegno, combattere per la nobiltà, / sforzarsi di giorno e di notte con ingente fatica / a giungere a eccelsa opulenza e d’impadronirsi il potere. / Oh misere menti degli uomini, o cuori insensibili! / In quali tenebre, in quali pericoli trascorriamo / questo poco di vita, quale esso sia. E come non vedere / che la natura non reclama nulla per sé, se non / che il dolore se ne stia lontano dal corpo e che / nell’animo goda d’una giocosa sensazione sciolta dagli affanni e dal timore? / Quindi notiamo che alla natura corporea bastino veramente / poche cose che leniscano il dolore, / sicché possano dispensare molti dolci piaceri. / talvolta è più piacevole- né la stessa natura lo richiede, / se non vi sono statue dorate per le stanze d’una villa, / che tengano con le destre delle lampade, / per illuminare i banchetti notturni, / è che la casa risplenda d’oro e d’argento, / né che le cetre facciano rimbombare i soffitti intagliati e dorati- / quando, tuttavia, fra amici, vicino a un corso d’acqua, / sotto le fronde di un albero, / senza grandi agi, si prendono cura del corpo, / specialmente il tempo sorride e la stagione / propizia cosparge i campi verdi di fiori. / Né le febbri abbandonano prima il corpo caldo/ se ci si rigira in coperte dipinte e rose di porpora, / piuttosto che si dorma in una veste plebea. / Poiché i tesori, la nobiltà e la gloria di regno / non giovano nulla al nostro corpo, / per il resto non bisogna pensare nemmeno che servano alla nostra anima; / a meno, per caso, vedendo le tue legioni / muoversi fervidamente per il campo di battaglia, suscitando immagini di guerra / rafforzate da truppe ausiliarie e dalla forza dei cavalli, / equipaggiate d’armi e parimenti animate di spirito bellicoso, / e vedendo la flotta veleggiare ampiamente, / le superstizioni atterrite da questi fatti / fuggano da te pavide; e i timori della morte / ti lascino il cuore leggero e sciolto da preoccupazioni. / E se queste cose ci paiono ridicole e degne di scherno, / in verità le paure degli uomini e le preoccupazioni che ne conseguono / non temono né il suono delle armi né le lance minacciose / audacemente s’aggirano tra i re e tra i ricchi / né hanno reverenza per il fulgore dell’oro / né del luminoso splendore d’una veste purpurea, / perché dubiti che il potere sia tutto della ragione, / essendo tutta la vita travagliata nelle tenebre? / Infatti come i fanciulli tremano e / temono tutto nelle buie tenebre, così noi / alla luce temiamo quelle cose che per niente si debbono temere / di più di quelle che spaventano i fanciulli nelle tenebre immaginandole imminenti. / E’, allora, necessario che questo timore dell’animo e queste tenebre / non vengano dissipate né dai raggi del sole né dai lucenti dardi del giorno, / ma dallo studio e dell’osservazione della natura.

Il saggio assapora la felicità stando tranquillo a contemplare l’affanno altrui. In questo modo, infatti, acquista la percezione del piacere, che consiste nella mancanza di dolore e turbamento. L’inizio del brano è lento, quasi affannoso, con la triplice anafora di suave, poi sempre più mosso e concitato fino che il poeta si lascia coinvolgere dal compianto per la miseria umana. Enjambements, esclamazioni, interrogazioni e riprese accentuano l’impatto emotivo del testo, stemprata, poi, in una ricca serie di immagini Il lessico nettamente positivo ( suave, dulcius, edita, serena, iucundu sensu, Gratis, in luce ) che connota la felicità del saggio, si contrappone ad espressioni negative ( tenebris, errare, mortisque timores, religiones, terrorem animi, metus hominum cauraeque ). Nell’incipit del brano si intrecciano numerosi riferimenti colti: l’immagine potente dello scampato alla tempesta, il quale dalla terraferma contempla, compiaciuto, le traversia del naufrago, era diffusa nella letteratura classica: Sofocle fr. 579N.; Archiloco fr. 43 K.; Cicerone Att II 7,4; a cui si possono aggiungere i versi 902-911 del terzo stasimo delle Baccanti di Euripide, e Orazio Epistola I 11,10. L’espressione non è da intendere nel senso che il saggio provi piacere di fronte al disagio altrui, ma che, assistendo da lontano, dall’alto della ragione, al meschino affannarsi degli altri uomini si sente libero dai mali che spingono ad affrontare rischi e pericoli di ogni genere e assapora la vera felicità, che consiste nella mancanza di dolore. La scrittura di Lucrezio continua in un incessante intreccio di parole che tendono a sottolineare l’altezza dello stile: suave è replicato con variatio e climax, il lessico è ricercato ed elegante, in certare ingenio e contendere nobilitate l’allitterazione degli infiniti e la cesura del verso accentuano il parallelismo dei due cola. Già nei versi 8-13 incominciano ad accentuarsi le differenze tra colui il quale risiede sui Templa serena dei saggi, e colui il quae erra senza scopo nel mondo, senza trovare un fine, ma si sforza per raggiungere una felicità che risulterà essere effimera. Questi versi dal forte impatto emotivo (despicere unde il verbo dà comunque l’idea dell’osservare dall’alto verso il basso… errare atuqe viam palantis quaerere vitae… certare ingenio…contendere nobilitate… rerumque potiri”) ci ricordano quelli del brano precedentemente proposto dove erano elencate con un ritmo incalzante tutte le varie azioni che il ricco annoiato compiva per a fuggire al malessere della vita. In questi versi, lo si vedrà più avanti, viene data un’indicazione chiara e esemplificata per raggiungere la vera serenità. A questa parte luminosa e solare si contrappone una seconda parte buia e tenebrosa: o miseras hominum mentis, o pectora caeca (v14), l’esclamazione è rimarcata dal chiasmo degli accusativi che pone in rilievo gli attributi, dalla forte cesura eftemimera, dalle evidenti assonanze della della m e della c, sa notarsi anche l’evidente metonimia di gusto virgiliano. L’impeto di questi versi risuona anche nell’ XI canto del Paradiso dantesco: “oh insensata cura de’mortali, / quanto son difettivi sillogismi / quei che ti fanno in basso batter l’ali!” (vv.1-3). Vi è poi un crescendo di drammaticità, l’ interrogativa retorica “nonne videre…” (v.16), nella forma del cosiddetto infinitum indignationis rende più patetica l’argomentazione, che trova il culmine al verso 17: “nil aliud sibi naturam latrare…”. La natura grida imperiosamente, animalescamente, il verbo latrare, forse connesso etimologicamente con lamentum, inserisce l’analogia nell’uso letterario che trova un suo precedente in Ennio (animusque in pecora latrat v.481 Skutsch) e in Omero (XX 13), riferito al cuore che latra dal dentro (come in Ennio): ὕστατα καὶ πύματα· κραδίη δέ οἱ ἔνδον ὑλάκτει… (..per l’ultima volta, il suo cuore di dentro latrava, di cui il verbo ὑλάκτει indica proprio il latrare dei cani). Ma l’immagine della natura che grida imperiosamente le sue richieste è anche in Epicuro, fr. 22 Arrighetti “ Non considerare innaturale, che, quando grida la carne anche l’anima gridi. Il grido della carne è: non aver fame, non aver sete e non aver freddo”. L’mmagine ha una forte intensità proprio per richiamare l’attenzione sui due concetti basilari della morale epicurea, che verranno poi enunciati: l’assenza di dolore e l’assenza di turbamento. La soddisfazione dei desideri del corpo richiede assai poco: non sono necessari banchetti in ambienti sfarzosi, infatti il contatto con la natura e l’amici basta per raggiungere la felicità, senza indulgere in un lusso fine a se stesso. Secondo la classificazione epicurea, quelli che tolgono il dolore sono i piaceri naturali e necessari. La soddisfazione dei desideri naturali e necessari non solo toglie il dolore, ma assicura anche molti piaceri, come secondo l’esempio, il mangiare e il bere in compagnia. Già il verbo substernere (v.22) è di per se eloquente (letteralmente “stendere sotto”) indica l’apporto di piacere implicito legato ai bisogni essenziali dell’uomo. Ai pochi beni necessari Lucrezio accosta i piaceri superflui , di cui quelli non naturali (vv24-28), che sono nocivi e quelli necessari e naturali, ammessi dalla dottrina epicurea. Lucrezio, riprendendo dei versi omerici, evoca il clima inutilmente sfarzoso delle ville romane. Le statue di giovani reggenti fiaccole compaiono nella descrizione di Omero della villa di Alcinoo:
χρύσειοι δ' ἄρα κοῦροι ἐϋδμήτων ἐπὶ βωμῶν
ἕστασαν αἰθομένας δαΐδας μετὰ χερσὶν ἔχοντες,
φαίνοντες νύκτας κατὰ δώματα δαιτυμόνεσσι.
(Omero, Odissea VII 100-102)
Successivamente in questi versi Lucrezio delinea un quadro paesaggistico ameno, idilliaco, che sarà l’unico modello latino della poesia bucolico pastorale virgiliana. Al ridente quadro dei piaceri naturali, Lucrezio oppone una nuova visone antitetica: i malanni non vengono allontanati più rapidamente da un tenore di vita lussuoso, che da uno modesto. Tutti mali che affliggono gli uomini: le superstizioni religiose , non possono essere fugati attraverso inutili prove di forza. Infatti Lucrezio tende a sottolinearlo utilizzando clausole ironiche come “si non forte” al verso 40. Da notarsi, comunque il clima tutto romano della scena delle esercitazioni militari, forse uno dei pochi collegamenti che il nostro autore fa con il suo periodo storico. Qual è dunque la via di fuga a questi mali? Lo studio appassionato della natura e dei suoi meccanismi. In questo caso ci allacciamo al testo del libro III, infatti, la soluzione che viene esposta è sostanzialmente la stessa: lo studio della natura. La ricchezza e il potere ( nel libro III erano descritte delle azioni di un ricco nobile annoiato) non riescono a prevalere sulle angosce e sulle paure che affliggono gli uomini. Lutezio nell’argomentare procede per espressioni binarie (es. ridicula… ludibriaque), ma la ridondanza qui ha la funzione di instaurare un rapporto tra le paure e le preoccupazioni quasi personificate. Il brano va via via concludendosi con una metafora colta ripresa dal Fedone (77) di Platone, l’espressione dei fanciulli che temono le tenebre interpreta suggestivamente e allusivamente il contrasto tra l’ignoranza del Vero e la dottrina del filosofo. Gli uomini, a differenza dei bambini, hanno paura anche alla luce del sole perché essa non riesce a dissipare le tenebre dell’intelletto. Come usuale in Lucrezio l’argomentazione si conclude con una formula quasi con degli epifonemi. In questo caso la chiusura è del tutto simile a quella del libro III ed insiste sul fatto, ripreso in tutto il poema, che il timor e l’horror gravano sulla vita degli uomini come conseguenza della paura degli dei.

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